Diario
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25/05/2012

Nel guasto, l’aggiusto

Bè, facciamo scuola allora.

Fonte: Linkiesta

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24/05/2012

E’ sempre meno fiction

La rivista Millecanali racconta che la fiction in Italia è in crisi. Per tanti e chiari motivi. Il più importante fra questi, per me, è al solito l’assenza di un mercato vero. I produttori di fiction sono schiavi delle scelte finanziarie e artistiche dei network televisivi che acquistano il 100% dei diritti, lasciando al produttore solo il gusto di dire l’ho pensata e sviluppata io. Cosa peraltro non vera, giacché quasi tutti i produttori son costretti ad attenersi alle linee guida editoriali dei network, ahimè spesso guidati da vecchi rottami della politica, in alcuni casi ex politici travestiti da uomini di televisione o di contenuto. Roba che in Sudafrica, America o nel Regno Unito si mettono a ridere quando gliela raccontiamo sulla Croisette. Fonte: Le cifre parlano chiaro: in Italia la produzione nazionale di serie e miniserie, comunemente definite “fiction”, é un dramma. Ironicamente, in americano “fiction” si traduce proprio con “dramma”. I motivi sono vari e complessi, ma vale la pena elencarli. In primo luogo, c’é la grande offerta americana a basso costo ed altissimo rendimento. Basti pensare che, secondo un recente studio inglese, con un costo medio di 52.000 euro per ora di fiction americana, le reti Tv italiane generano entrate medie di quasi 82.000 euro/ora. Poi ci sono gli alti costi della produzione nazionale. Questo quadro non è chiaro perché nel settore girano almeno tre differenti stime. Da una parte c’é la ricerca della Fondazione Rosselli del 2008 (“Il valore della fiction in Italia”) che valuta la produzione italiana a 700 milioni l’anno per circa 2.200 ore, quindi una media di 318.000 euro per ora. Dall’altra c’é il rapporto “100 Autori”, nel quale alla produzione nazionale vengono assegnati 335 milioni di euro l’anno. Infine ci sono le cifre fornite da Fabrizio Del Noce di Rai Fiction, con costi minimi di 1,1 milioni di euro/ora. Premettendo che i dati forniti dalla Fondazione Rosselli si equiparano a quelli del rapporto inglese, con le cifre dei “100 Autori” i costi di produzione sarebbero di circa 152.000 per ora, mentre con la somma fornita da Del Noce, la fornitura annuale sarebbe di 305 ore e non 2.200, come indicato dalle altre ricerche da noi prese in esame. Considerando i costi provenienti dallo studio della Fondazione Rosselli, cioé una media di 318.000 euro/ora, con le fiction nazionali le reti subirebbero perdite medie dell’ordine di 150.000 euro per ora (solitamente perché le serie italiane attirano piú audience). Per colmare i deficit, le reti si trattengono tutti i diritti, rendendo quindi il produttore un semplice impiegato a tempo determinato. Questo elemento é fonte di disaccordo poiché, non potendo cosí accumulare un catalogo, i produttori non possono ottenere prestiti bancari con garanzie collaterali e quindi dipendono interamente dalle reti. L’alternativa – il modello finanziario americano – sarebbe quello di fornire alle reti una fiction al 60% del costo di produzione, conservando i diritti internazionali, quelli ancillari (Dvd, Vod, a bordo, banda larga, ecc.) e quelli di syndication nazionale (dopo alcuni anni possono essere venduti a gruppi di Tv locali). Con queste ultime vendite il produttore finanzierebbe il deficit e creerebbe una “library” (che diventerebbe un “asset”). In questo caso, peró, il produttore dovrebbe non solo esporsi ai rischi del mercato ma anche sviluppare una forza vendita. Cose che pochi hanno interesse o voglia di fare. Tornando alle serie importate, nel 2011 l’Italia é stato il primo mercato Tv europeo per l’importazione di fiction americane. Questi dati sono forniti da uno studio dal titolo “Imported Drama Series in Europe”, nato dalla collaborazione di tre societá inglesi: Essential Television Statistics, Madigan Cluff e Digital Tv Research. Secondo questo studio, nel 2011 gli americani hanno fornito all’Italia 1.190 ore o il 63% della fiction di prima serata. Al secondo posto, ma ben distaccata, figura la Germania con 588 ore. In totale, nel 2011 l’Italia ha importato 10.668 ore di fiction ed é stato calcolato che le entrate pubblicitarie generate dalla fiction importata sono state di 873 milioni di euro, un aumento di 31 milioni rispetto all’anno precedente. In rapporto ai costi d’acquisto per la fiction, stimati a 550 milioni di euro l’anno, le reti Tv italiane hanno quindi ricavato profitti di 323 milioni. I costi totali delle serie importate sono dati riservati che sia gli studio che le reti non rilasciano mai e se forniti, lo sono in modo distorto. Ad esempio, “100 Autori” ha calcolato che i costi per le importazioni di fiction ammonterebbero a 400 milioni di euro, ottenendo – con un listino prezzi medi giá scontato a 52.000 euro per ora – solamente 7.700 ore e non le 10.668, come indicato sia dalla ricerca inglese che dalla Fondazione Rosselli. Le stime per l’acquisto di 550 milioni sono state ricavate consultando informalmente alcuni dirigenti di studio americani e facendo verifiche incrociate. Per quanto riguarda le reti, durante il 2011, RaiUno ha ridotto il numero di fiction importate, mentre RaiDue e RaiTre le hanno aumentate. In totale, la Rai ha importato 3.014 ore. Tutte le reti Mediaset (Canale 5, Italia 1 e Rete 4) hanno diminuito le ore complessive di fiction importate da 6.602 ore nel 2010 a 5.912 nel 2011. Anche La 7 ha ridotto il numero di fiction importate da 1.917 ore a 1.742.

Fonte : Millecanali

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23/05/2012

Odeon e il Friuli

Da quando ho scoperto la sua esistenza, non riesco a rinunciare alla lettura della rivista Odeon: molto acuta, senza pruderie o censure, offre un punto di vista chiaro e informato sulle vicende dell’audiovisivo nazionale. Una sua redattrice però, presa dall’ansia terzista di colpire un po’ qua e un po’ là, dimostrando che solo Odeon è davvero una rivista attenta, commette una ingenuità non ammissibile per noi, esponenti istituzionali e industriali del cinema nazionale. Lo dico così: se a inizio anno la Regione assegna delle risorse ad un ente strumentale come la film commission perché questa sostenga e assista i film e le produzioni audiovisive che si girano sul proprio territorio, tanto più nel caso da sempre esemplare della FVG Film Commission, se a metà anno le toglie risorse per imputarle su altri capitoli di bilancio, la Regione stessa commette un errore duplice. Perché fa sorgere il sospetto che si tratti di censura del lavoro svolto dai propri delegati film commissioner e, soprattutto, perché manda un segnale al mercato devastante. Che dice più o meno così: “noi siamo la politica e facciamo come cazzo ci pare”. E allora io vi dico, cari politici, che poi ve lo meritate il M5S e i cittadini arrabbiati o astensionisti. In ultimo voglio dire anche chiaramente che, se si fosse trattato di un film di Renzo Martinelli su – chessò – Benito Mussolini nella mia regione, a parti invertite, avrei scritto le stesse cose. Perché qui in discussione non è la censura, ma la serietà industriale di un sistema nazionale di cui le film commission sono un asset decisivo.

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17/05/2012

Le belle idee

Se due persone splendide e intelligenti come Antonello Faretta e Antonello Caporale collaborano, ecco cosa può venir fuori. Una idea bella e importante: La Basilicata nel Cellulare Memorie del Terremoto e Sogni di Petrolio Un film collettivo alla ricerca della memoria del sisma del 1980 in Basilicata e sulla percezione del futuro dei suoi giovani realizzato con i telefoni cellulari dagli studenti delle scuole di Corleto Perticara, Latronico, Marsico Nuovo, Pescopagano e Potenza. Il documentario, realizzato con la supervisione artistica di Antonello Faretta, è stato prodotto dall’Osservatorio Permanente sul Doposisma diretto da Antonello Caporale e il Noeltan Film Studio grazie al contributo della Regione Basilicata e alla collaborazione della Nokia, delle Teche Rai di Basilicata e del Centro Lucani nel Mondo Nino Calice.

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17/05/2012

Età medie

La classe dirigente italiana ha un’età media di 59 anni. Lo staff dell’Apulia film commission un’età media di 32,3 anni. La media delle età di Presidente, Vice Presidente e Direttore di Apulia film commission è di 42,6. L’unico modo per cambiare veramente le cose è dare il buon esempio.

Fonte: Corriere

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17/05/2012

I modi sbagliati

Le film commission possono appartenere a due grandi famiglie. Ci sono, infatti, quelle che, come la nostra, credono nell’audiovisivo come fattore di sviluppo locale. Più addetti, più competenze, più ricadute economiche produrranno progressi significativi nel campo sociale, economico e culturale. Dunque in via indiretta anche maggiore visibilità per il territorio. E poi ci sono le film commission che credono nel cineturismo, come ragion d’essere fondante del proprio lavoro. Più film ambientati e localizzati nelle proprie location, traineranno il comparto turistico, stimolando l’immaginario turistico globale e orientandolo verso il proprio territorio. Due approcci che possono fondersi, intrecciarsi e, in definitiva, integrarsi nell’ottica della crescita di un territorio. Nell’uno e nell’altro caso, però, è la politica che deve dare uno stimolo forte affinché la film commission scelga la propria missione in modo strategico. E il presidente della regione Lombardia, per esempio, secondo me commette un errore strategico poderoso. Il motivo è sempre l’annosa “questione settentrionale”. I provvedimenti di questi politici, invece che favorire il progresso delle proprie comunità verso una idea universale di cultura, ne restringono l’orizzonte, alzando steccati, creando “piccole patrie” asfittiche. E non capiscono che, così facendo, si auto limitano. Fonte: Un riconoscimento di qualità, una sorta di “denominazione d’origine controllata” per le produzioni cinematografiche di rilievo regionale. E’ quanto prevede una delibera approvata dalla Giunta regionale, su proposta del presidente Roberto Formigoni, di concerto con il sottosegretario al Cinema Massimo Zanello. “La nostra regione è caratterizzata da una straordinaria ricchezza culturale e paesaggistica – ha sottolineato Zanello – che ben si presta alle ambientazioni cinematografiche. Con questo nuovo strumento, dunque, vogliamo certificare le opere cinematografiche di qualità che promuovono e valorizzano il nostro territorio”. 

 CHI POTRÀ RICHIEDERE IL RICONOSCIMENTO – La “certificazione” – che non sarà accompagnata da alcun contributo economico pubblico – è destinata a tutti i soggetti, privati e pubblici, profit e no profit, che realizzino opere cineaudiovisuali (film, cortometraggi, lungometraggi, documentari, docu-fiction e film di animazione) in “salsa lombarda”, spendendo almeno il 50 per cento del budget complessivo per la produzione in regione e che abbiano effettuato almeno metà delle riprese in Lombardia. La valutazione delle domande presentate per ottenere il riconoscimento è affidata a un comitato, composto tra gli altri da un rappresentante della fondazione Lombardia Film Commission. La struttura verificherà, oltre all’aderenza del progetto all’obiettivo di valorizzare il patrimonio culturale, storico e territoriale lombardo, le possibilità di sviluppo dei progetti nella rete e nei social media. Ulteriore elemento per la valutazione sarà rappresentato da premi e riconoscimenti ottenuti da regista, sceneggiatore e produzione, oltre che dal numero di film già realizzati.

Fonte: Mi-lorenteggio

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16/05/2012

La Grecia, la Germania, l’Europa

Vorrei dire molte cose sulla vicenda greca che, in queste ore, ci rende così apprensivi sulle sorti dell’Europa e del nostro futuro, (im)possibile benessere. Penso che uno dei miei cari maestri lo faccia meglio di come potrei mai fare io. Da leggere e meditare. “Come era nella logica delle cose, la Grecia è sempre più vicina al default e, di conseguenza all’uscita dall’Euro. La Grecia ha un debito di oltre 320 miliardi di Euro ed interessi che si mangiano intorno ai 30 miliardi l’anno, vale a dire circa il 10% del Pil. Messa in termini di debito pro capite significa circa 3.000 euro per ciascun cittadino, compresi lattanti, carcerati e moribondi e senza per questo intaccare il capitale da restituire. Questo in un paese in cui il reddito pro capite è di 23.000 Euro all’anno. Dunque, gli interessi si mangiano circa 1/7 del reddito pro capite, andandosi ad aggiungere al prelievo fiscale ordinario. In queste condizioni, quale persona sana di mente può pensare che il debito sarà mai restituito e, più semplicemente, che la Grecia possa sopportare a lungo anche solo il pagamento di questi interessi, considerando che la politica di rigore ha stremato il paese facendo calare il Pil di quasi il 15%? 
Anche l’ haircut concordato con i creditori non ha risolto il problema, perché il debito resta non restituibile ed il prelievo degli interessi pregiudica qualsiasi possibile ripresa. Il popolo greco è ormai sotto la soglia di povertà e la “troika” Bce, Ue Fmi può anche pensare di spremere sangue da una rapa, ma sinora nessuno è riuscito nell’impresa. Proseguire sulla strada indicata dalla troika è solo una inutile agonia che lascia i greci più poveri e disperati di prima. Dunque, la via del default non è una scelta, ma una strada obbligata. Ma, qualcuno obbietta, così la Grecia resterà di nuovo esclusa dai mercati finanziari internazionali, perché nessuno investirà più 1 solo euro nei titoli di un debitore che ha dichiarato fallimento. Si, però anche la scelta dell’haircut dà lo stesso risultato: quale risparmiatore investe nei titoli di un debitore che, comunque, ha rinnegato una parte del proprio debito e non rispetta le scadenze fissate? Da questo punto di vista, tanto un disconoscimento integrale del debito, tanto uno parziale hanno lo stessissimo risultato di emarginare il debitore dai mercati finanziari; tanto vale rinnegare per intero il debito. Ma in questo caso, la Grecia dovrebbe rinunciare ai fondi strutturali dati dalla Ue. Giustissimo, ma tanto non coprono nemmeno in parte degli interessi che annualmente la Grecia è costretta a dare nonostante l’haircut. Ma, si obietta ancora, non potendo approvvigionarsi sul mercato finanziario, la Grecia avrebbe solo le entrate fiscali per pagare stipendi pubblici e pensioni. Verissimo e, infatti, a questo punto la Grecia già è arrivata e va saltabeccando da una scadenza all’altra (ieri quella di 450 milioni di Euro che, per ora, sembra superata) in attesa di andare a sbattere, prima o poi, contro lo scoglio decisivo. Diciamoci la verità: l’ haircut e la pressione politica sulla Grecia perché non dichiari default è solo un espediente della Ue per guadagnare tempo: impedire per ora la crisi dell’Euro sperando che nel frattempo la tempesta passi e poi che la Grecia vada all’inferno non ce ne potrebbe importare di meno. Aim paesi dell’eurozona fa comodo guadagnare tempo ma questo deve essere pagato dai greci ridotti alla miseria. Come la si rigiri, alla Grecia resta un’unica soluzione per pagare le spese statali: uscire dall’Euro, tornare alla Dracma che è una moneta nazionale ed, in quanto tale è manovrabile. Ovviamente questo significa una moneta svalutata (probabilmente oltre il 30% di quel rapporto 1 a 340 che c’era al momento dell’infausto ingresso della Grecia nella moneta comune) e questo significa costi proibitivi per gli acquisti sul mercato internazionale (a cominciare dal petrolio). Però consentirebbe di riprendere all’interno e, dopo poco, darebbe un forte vantaggio competitivo alle merci greche ed al turismo. Il cambio favorevole renderebbe conveniente investire in Grecia che diventerebbe una sorta di “Cina a due passi da casa”. Per i greci non ci sarebbe da scialare, ma, alla fine sarebbe un modo per iniziare a venirne fuori. E’ probabile che la Ue (soprattutto dietro sollecitazione italiana e spagnola) penserebbe a dazi protezionistici, questo, però, aprirebbe problemi di diritto internazionale di non poco conto: a parte le regole del Wto, come farebbe la Ue ad applicare norme protezionistiche contro un suo membro? Prima occorrerebbe espellere la Grecia dalla Ue, ma nessun trattato prevede l’espulsione di un paese membro. E resterebbero sempre i vincoli Wto. Qualche pateracchio lo troveranno, ma non sarà semplicissimo uscirne. Ma cosa succederà agli altri in caso di uscita della Grecia dall’Euro? Si sprecano gli scenari catastrofici che prevedono una impennata degli spread a spese dei paesi europei più deboli (Portogallo, Spagna, Italia, Irlanda) ma che, in misura minore, colpirebbero anche la Francia. C’è chi stima in 11.000 euro annui il costo pro capite per tutti gli europei.
Di sfuggita notiamo che se i costi fossero davvero così elevati (11.000 euro pro capite), considerando che la popolazione dell’Eurozona senza la Grecia assomma a 318 milioni di abitanti, significa che il costo complessivo corrisponderebbe a circa 3.500 miliardi di euro ) più di 10 volte dell’ammontare dell’intero debito greco: se così fosse, non sarebbe più conveniente comperare l’intero debito greco e metterlo in cassa “a babbo morto” con interessi puramente simbolici? Anche perché, in caso di default il capitale sarebbe comunque perso e ci si risparmierebbero gli effetti “collaterali”. In realtà nessuno sa cosa in concreto potrebbe accadere e non è realistico fare stime quantitative attendibili ma, se è realistico pensare che la cosa non sarebbe indolore. In primo luogo, questo appesantirebbe immediatamente la posizione dei paesi più esposti come il Portogallo, avviando un possibile “effetto domino”. In secondo luogo non è grande profezia sostenere che ci sarebbe immediatamente una manovra speculativa contro l’Euro -a cominciare da un’ esplosione di cd-swap su titoli portoghesi, spagnoli ed italiani- che ne indebolirebbe ulteriormente la posizione sui mercati mondiali. Non c’è dubbio che l’uscita di un solo membro dall’eurozona sarebbe la rottura di un tabù che farebbe calare l’apprezzamento della moneta –e dei titoli di stato ad essa collegati- ben al di là del peso del singolo paese defezionista. Ma, se il costo dell’uscita greca andasse al di là di una certa soglia, questo determinerebbe un effetto perverso per il quale ogni ulteriore fuoriuscita comporterebbe danni di immagine ed equilibrio crescenti, con l’ulteriore effetto di rafforzare il potere contrattuale dei paesi più esposti: una sorta di “ricatto del debitore” al quadrato che renderebbe ingovernabile l’Unione. Non siamo mai stati sostenitori dell’Euro e riteniamo tutt’ora del tutto irrazionale separare la moneta dallo Stato. Per di più non crediamo neppure nella favola della prossima unificazione politica d’Europa; per cui pensiamo ragionevole l’idea di tornare ad una unità di conto comune, ma articolata in monete nazionali a cambio reciproco variabile, ma c’è modo e modo di farlo: si può uscire da un palazzo pericolante cercando di guadagnare le scale e lo si può fare gettandosi dal sesto piano. Di solito il primo modo è più comodo. Le stesse considerazioni si possono fare a proposito del caso greco che rischia realmente di essere l’avvio dell’intero processo. Che Atene debba rinnegare il debito ed uscire dall’Euro è nell’ordine naturale delle cose, ma c’è modo e modo di farlo. In primo luogo: che senso avrebbe tagliare i fondi Ue alla Grecia se non quello di una misura punitiva? Splendido esempio di teutonica stupidità, assolutamente inutile sul piano economico. E che senso avrebbero dazi protezionistici? Sarebbe molto più sensato sostenere la nuova moneta greca (e proprio gli aiuti in Euro, ad un paese che passa ad una moneta come la dracma, potrebbero avere un notevole effetto riequilibratore) e trattare sui prezzi delle esportazioni (ad esempio attraverso di dazi in uscita che, oltre che calmierare l’effetto concorrenziale verso i paesi vicini, avrebbero l’effetto di sostenere il gettito fiscale dello stato greco). Insomma, anche in questa occasione possiamo cercare di scendere dalle scale, ma i tedeschi sono sempre irresistibilmente attratti dalla finestra del sesto piano… Lo hanno fatto già due volte in un secolo, ma non imparano mai. Peccato che questa volta si portano dietro anche noi.”

Fonte: Aldo Giannullli

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16/05/2012

Avere il coraggio. Cercare ancora

In Italia non esiste un vero mercato del cinema e dell’audiovisivo. Le responsabilità sono politiche, innanzitutto. Perché nessun governo nell’ultimo decennio, ha avuto il coraggio di liberalizzare l’audiovisivo, per citare un bel ragionamento di Maurizio Sciarra (http://www.pdpuglia.org/sito/rassegna-stampa/comunicati/234-universo-audiovisivo-le-nuove-frontiere-del-digitale-partecipa-maurizio-sciarra.html) e il duopolio è diventata la scusa per dire sempre le stesse cose nei convegni e non accorgersi che nel frattempo il sistema della distribuzione aveva massacrato il prodotto e che manager sempre più scadenti si erano appropriati di ogni ganglio di aziende un tempo floride e importanti nel settore privato. Dove scadente significa essere incapaci di riconoscere il prodotto, di valorizzarlo, di capire i gusti degli italiani e di anticiparli, magari. Non, invece, di assecondarli verso il basso. Tutti sanno ormai, ad esempio, che Mediaset ha deciso di disinvestire in Medusa e che Rai Cinema, che potrebbe funzionare benissimo se solo avesse qualche euro in più, è troppo sensibile ai voleri della casa madre di Viale Mazzini (cioè del Parlamento). In un mercato così asfittico, evidentemente il desiderio di certa cattiva politica è tenere i produttori indipendenti (cioè l’unica vera risorsa del nostro sistema) sotto lo schiaffo della risorsa pubblica sempre più ridotta. Dunque i produttori si sono trasformati in piccoli politici di bassa lega, capaci cioè di strisciare lungo il muro dei contatti giusti, latori di storie edulcorate e corrette, che possano piacere al gusto medio televisivo – finanziatore di unica istanza – e dunque, incapaci di varcare i confini nazionali se non per miracolose congiunture. Siamo all’anno zero, dunque. Chi sopravviverà a questa crisi etica, semiologica e finanziaria, sarà più forte domani, ma solo se il domani lo avrà anticipato con storie e produzioni coraggiose, anche a basso budget, ma capaci di rompere l’assedio dei costi alti dettati da agenti impazziti (e fomentati dai loro talent), da una pirateria che, in nome della libertà della rete, ha instaurato un regime populista di fatto: quel che mi piace mi prendo, senza pagare. E se sarà in grado di sopravvivere alla mortificante esigenza di costruire budget “spezzatino” e alla fatica di dialogare con mille interlocutori diversi e spesso incapaci di ascoltare e capire. In tutto questo la sinistra è afasica e questo fa davvero male. Perché questi temi un tempo non avrebbero lasciato dormire i quadri dirigenti del PCI. E allora tocca agli uomini e alle donne di buona volontà, riprendere in mano un discorso pubblico sul cinema e l’audiovisivo, sulla cultura e sulla industria della cultura. Perché occorre costruire il “day after” e serve farlo subito. Come, ad esempio, segnale singolare per un uomo contiguo per cultura e storia agli ambienti della destra cattolica capitolina (dunque non esattamente il massimo in tema di apertura culturale), ha fatto in una mirabile intervista l’avvocato Michele Lo Foco. Davvero molto condivisibile. Claudio Napoleoni invitava anni fa a “cercare ancora”. Noi non ci dobbiamo fermare mai. Continuando a cercare e a studiare.

Fonte: Tespi

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14/05/2012

E noi, quando?

L’edizione 2012 del Rapporto ITU ‘Trends in Telecommunication Reform’ evidenzia il ruolo cruciale giocato dalle legislazioni nazionali per accelerare lo sviluppo della banda larga e incoraggiare lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi digitali.

Il Report, sottotitolato ‘Smart Regulation for a Broadband World’, fornisce informazioni sulle questioni giuridiche e regolamentari, spesso complesse, che emergono oggi in merito alla diffusione della banda larga, motore sempre più potente per lo sviluppo di altri settori economici. Dal Report emerge che in questi ultimi cinque anni, il numero di abbonati alla banda larga fissa è più che raddoppiato per raggiungere i 591 milioni all’inizio del 2012, ma persistono forti disparità tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo. Il tasso di penetrazione della banda larga fissa nei Paesi industrializzati, che è del 26%, è in forte contrasto con quello dei Paesi in via di sviluppo che raggiunge appena il 4,8%. L’accessibilità resta l’ostacolo maggiore soprattutto in Africa, dove l’accesso alla banda larga fissa costa in media tre volte le entrate mensili per abitante. Secondo i dati forniti dall’ITU, il numero degli utenti attivi dei social media ha superato il miliardo e molti di questi si collegano dai loro dispositivi mobili. Le statistiche sul tasso di penetrazione della banda larga mobile, tuttavia, evidenziano che nel 2011 solo l’8,5% degli abitanti dei Paesi in via di sviluppo aveva accesso a servizi mobili broadband. Questo Report rileva che l’attuale rivoluzione della banda larga lascia regolarmente fuori vasti segmenti della popolazione mondiale. Oltre 5 miliardi di persone non hanno infatti mai avuto accesso a internet, nemmeno a banda stretta, o quando lo hanno fatto è stato sempre da luoghi pubblici e condivisi. Nel frattempo, la commercializzazione di applicazioni e nuovi dispositivi come i tablet espongono a una crescita esponenziale del traffico dati, spingendo al limite le capacità delle reti esistenti mentre i servizi Over‑the‑Top (OTT), come il cloud computing o l’eCommerce, stanno scoraggiando l’interesse degli operatori tlc a finanziare lo sviluppo di nuovi network, i cui prezzi sono molto alti. Infine i regolatori del settore ICT devono fronteggiare diversi e nuovi problemi (protezione dei diritti di proprietà intellettuale, trattamento ecologico e responsabile dell’e-waste, la tutela della privacy sulle reti sociali) che sollecitano ancora di più i loro mandati e le loro risorse. Per quel che riguarda l’erogazione di servizi tlc tradizionali, le reti a banda larga rimettono già in questione i vecchi schemi come l’open access o le modalità di finanziamento dell’accesso e del servizio universale. Negli ultimi 20 anni, la portata dell’accesso e del servizio universale s’è allargata fino a includere sempre di più internet e anche la banda larga. E i capitali precedentemente utilizzati per stimolare l’offerta – reti e installazioni – sono ormai impiegati per operazioni di rilancio della domanda. La banda larga, inoltre, sta rivoluzionando radicalmente i modelli in uso in altre branche dell’economia, come l’offerta di servizi finanziari di mBanking o la protezione di contenuti originali. L’evoluzione del mercato potrebbe portare i regolatori a giocare un nuovo ruolo. In questi ultimi anni, i regolatori tradizionali di tlc hanno visto sempre più il loro mandato allargarsi alle tecnologie dell’informazione e al broadcasting. Questioni complesse legate alla cyber-security, al rispetto della vita privata e alla protezione dell’ambiente occupano da un po’ di tempo a questa parte la scena, e bisogna anche considerare il forte aumento dell’uso di applicazioni e servizi evoluti online. Visto il volume considerevole di dati generati dalle applicazioni a banda larga fissa e mobile, la maggior parte dei Paesi si trova a dover fronteggiare un deficit critico delle loro infrastrutture ICT. Considerata l’importanza della banda larga per lo sviluppo di ciascun Paese, questo deficit è un problema grosso per la politica, che comporta la necessità di creare nuovi quadri regolamentari tran-settoriali adatti al contesto della banda larga. E’ incoraggiante constatare che oltre 130 Stati hanno adottato una politica, una strategia o un piano nazionale a sostegno della banda larga, o prevedono di farlo. “La sfida maggiore per i regolatori dell’ICT consiste oggi nello stimolare gli investimenti e l’innovazione, senza scoraggiare la concorrenza”, ha detto il Segretario generale dell’ITU Hamadoun Touré. “Bisogna investire massicciamente e in modo stabile nelle reti, perché tutti possano avvantaggiarsi della crescita economica sostenuta dalla banda larga. Gli autori del Rapporto si chiedono cosa potrebbero fare i regolatori e quali risultati potrebbe produrre l’adozione di misure innovative in materia di regolamentazione”. Il Rapporto ‘Trends in Telecommunication Reform 2012’ offre ai decisori e ai regolatori indicazioni per la costituzione di un ambiente digitale favorevole alla crescita, sia dell’ICT che dell’economia in senso ampio. Quali elementi dovrebbero figurare in un piano nazionale per la banda larga? Quali misure adottare per garantire pari opportunità a tutti gli operatori? Per cosa stanziare fondi pubblici e come usarli rispettando i principi dell’open access? Come proteggere l’utente finale dai pericoli del cyber-world? Come promuovere l’adeguato uso di contenuti condivisi, in modo da proteggere i diritti di proprietà intellettuale e le questioni legate al diritto d’autore? “L’arrivo delle tecnologie di banda larga ha fondamentalmente trasformato il nostro modo di comunicare, di accedere all’informazione, scambiare esperienze e conoscenze e fare transazioni commerciali”, ha sottolineato Brahima Sanou, Direttore del Telecommunication Development Bureau dell’ITU, che ha aggiunto “La banda larga sta rivoluzionando i rapporti sociali, politici e commerciali. E’ uno dei motori dell’innovazione e del dinamismo economico”. “Sono fermamente convinto – ha detto ancora Brahima Sanou – che la banda larga dovrebbe essere considerata come parte delle infrastrutture critiche di un Paese in funzione della sua importanza. Bisogna, quindi, definire strategie e piani scrupolosamente articolati che permettano a tutti di beneficiare di nuove applicazioni, servizi e opportunità economiche grazie alla banda larga”.

Fonte:  KEY4BIZ

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14/05/2012

Numbers

Lo scorso anno i cinema della Ue hanno evidenziato una certa stabilità, registrando un aumento delle entrate lorde rispetto al 2010, nonostante il forte rallentamento della crescita degli ultimi due anni. In base ai dati disponibili, l’Osservatorio europeo dell’audiovisivo stima, provvisoriamente, che le entrate lorde delle sale hanno registrato un leggero aumento dello 0,7%, passando da 6,37 miliardi di euro a 6,4 miliardi. L’affluenza è rimasta stabile con circa 961 milioni di biglietti venduti. Sebbene lo scorso anno il numero delle uscite in 3D e delle apposite sale per la proiezione in tre dimensioni sia fortemente aumentato, il formato sembra essere arrivato a maturità su alcuni mercati come il Regno Unito dove, nonostante l’aumento del numero delle uscite 3D (47 nel 2011 contro 28 nel 2010), la quota sulle entrate lorde delle sale è diminuita, passando dal 24% al 20%. Di conseguenza, diversamente da quanto avvenuto nel 2009 e nel 2010, nella Ue non si è riusciti ad aumentare il prezzo medio del biglietto, che è cresciuto solo dello 0,5% a 6,6 euro. Per quel che riguarda i differenti mercati europei, nel 2011 la frequentazione delle sale risulta considerevolmente diversa: l’affluenza è diminuita in 11 ed è aumentata in 15 dei mercati dell’Ue peri quali erano disponibili i dati, mentre le entrate lorde sono cresciute in 14 e diminuite in 12 di questi mercati. Il cinema ne esce bene in Francia (aumento record del 4,7%), Regno Unito (+5,2%) e Germania (+4,1%), mentre Spagna e Italia hanno registrato un netto calo dell’affluenza e delle entrate. Maggiori informazioni sono disponibili nella brochure ‘Focus 2012 World Film Market Trends’, realizzata dall’Osservatorio europeo dell’audiovisivo per il Market Film di Cannes. Nel 2011 i film europei hanno recuperato quelle quote di mercato che avevano perso nel 2009 e nel 2010 a vantaggio dei blockbuster 3D americani. Sulla base di dati provvisori, si stima che la fetta di mercato dei film europei nella Ue è aumentata dal 25,2 % al 28,5 % nel 2011, recuperando la posizione del ‘pre-3D’ nel 2007 e nel 2008. I film americani hanno perso terreno, passando dal 68,5% al 61,4%. Il livello più basso dal 2001 a oggi. La parte di mercato dei film europei prodotti in Europa con l’aiuto dei capitali americani, come Harry Potter, Deathly Hallows Part 2 e The King’s Speech, è aumentata dal 5,0% all’8,4%. Il ritorno dei film europei è dovuto principalmente a una serie di commedie locali come Intouchables (FR), The Inbetweeners (GB), Kokowääh (DE) o Che bella giornata (IT), che hanno registrato eccellenti risultati, in particolare sui mercati nazionali. Di conseguenza, le parti di mercato dei film nazionali sono aumentate in 15 dei 23 Paesi membri della Ue per i quali sono stati resi disponibili i dati, e registrano un nuovo record sugli ultimi cinque anni su otto. Ancora una volta, i film francesi hanno attirato il più gran numero di spettatori, rappresentando il 10,5% del totale delle entrate nella Ue. Sostenuti da risultati solidi sul mercato nazionale, i film italiani occupano il secondo posto con il 4,6% e sono seguiti da produzioni tedesche e britanniche che rappresentano, ciascuno, il 3,7% delle entrate totali nella Ue. Lo scorso anno, i livelli di produzione della Ue sono continuati ad aumentare per raggiungere un nuovo record con 1.285 lungometraggi, vale a dire 59 film in più rispetto al 2010. La crescita è stata trainata dall’aumento del numero di fiction (+26), ma anche dai documentari (+33). Il volume di produzione totale si divide tra 915 fiction (71% lungometraggi) e almeno 370 documentari (29%). Con oltre 200 lungometraggi nazionali prodotti nel 2011, Francia e Regno Unito sono i Paesi che hanno il più grosso numero di produzioni in Europa. Grazie a un approccio legislativo unico che rende obbligatori i contributi dei distributori, la Francia ha registrato i progressi più rapidi nella digitalizzazione delle proprie sale e rafforzato la propria posizione di principale mercato europeo nel cinema digitale con un totale di 3.656 sale digitali alla fine del 2011, di gran lunga il maggior d’Europa. Regno Unito e Germania seguono a distanza con 2.724 e 2.303 sale digitali mentre gli altri tre mercati europei – Spagna, Italia e Federazione Russa – ne contano ciascuno quasi 1.500. Con il 72% di schermi digitali a fine 2011, il Regno Unito vanta la più forte penetrazione di sale digitali tra i primi sei mercati europei, davanti a Francia (67%), Russia (54%) e Germania (50%). Restano molto dietro Spagna e Italia, rispettivamente con il 39% e il 38% delle sale digitali, dove lo sviluppo non è proceduto a un ritmo paragonabile. Sequel e spin-off figurano in buona posizione nelle classifiche europee del 2011, come del resto avviene anche su altri mercati mondiali. Guidati dall’ultimo episodio di Harry Potter, Pirates of the Caribbean e la saga di Twilight, 13 sequels/ prequels/ spin-offs si trovano tra i primi 20 posti. Con più di 37,5 milioni di biglietti venduti, Harry Potter è il film che ha avuto maggior successo nella Ue, seguito da Pirates (25,1 milioni) e Breaking Dawn – Part 1 (22 milioni). The King’s Speech è il secondo film europeo ad aver registrato più spettatori (19,8 milioni di biglietti venduti) dopo Harry Potter, entrambi britannici e realizzati grazie al sostegno di uno studio americano. I primi film europei, prodotti senza investimenti americani, sono le commedie francesi Intouchables e Rien à déclarer, rispettivamente con 15,7 milioni e 9,8 milioni di spettatori nell’Unione europea, seguiti dalle britanniche Johnny English Reborn e The Inbetweeners Movie.

Fonte: Osservatorio Europeo dell’audiovisivo