Diario
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22/01/2012

I Sud

Io non so se esistono più Sud. So che esiste e ch’io vivo il mio Sud. Per questo mi irrito quando i cineasti ci chiedono di portarli in una Puglia che non esiste più, arretrata, ancestrale, immobile come in un vecchio dagherrotipo.

Il mio Sud è moderno, competitivo, competente, aggiornato, evoluto, europeo con lo sguardo rivolto verso sud e verso est. Se non l’avete ancora capito noi siamo un Sud nuovo, non stereotipato. E non dobbiamo chiedere scusa a nessuno. E non dobbiamo ringraziare alcun nord, ma solo noi stessi.

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22/01/2012

Superficialità

L’altra sera mi è capitato di assistere alla intervista de “Le invasioni barbariche” del duo Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio, noto ai più come “i soliti idioti”. Avevo grandi aspettative, perché dopo lo scambio di battute con la critica Mariarosa Mancuso, immaginavo di ascoltare da loro una profonda analisi del paese e dei caratteri tipici dell’italianità, filtrati da due comici di grande successo.

Ne sono rimasto molto deluso. Non me lo aspettavo, ed ero anzi pronto a fare un’autocritica feroce. Invece no. Quei due sono due simpatici cazzoni, vuoti come un pallone pieno d’aria.

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20/01/2012

Vive la France!

Due notizie arrivano dalla Francia a ricordarci come a volte la storia prende la strada sbagliata e a noi invece che la Rivoluzione borghese e Napoleone c’è toccata la frammentazione e gli statarelli tremolanti difronte agli invasori…ma il nostro genio, fortunatamente, trova sempre la strada della luce. Leggere per credere.

“C’è un cinema che il nostro settore dell’audiovisivo guarda come il Paradiso in terra. Per quanto gli italiani sentano forte, e ricambiati, la rivalità con i cugini transalpini, è evidente da ogni dichiarazione pubblica di dirigenti e artisti che il modello da seguire per l’Italia è la struttura del settore cinematografico francese, assistito dallo Stato e dai privati con giudizio e intelligenza dalla produzione (vedi le SOFICA, le Société pour le financement de l’industrie cinématographique et audiovisuelle) alla distribuzione e promozione internazionale (Unifrance, 9 milioni di euro, sedi all’estero e un lavoro capillare sulla promozione del cinema francese). In occasione del 14mo Rendev-Vous du cinéma français, Unifrance ha esposto i dati economici del proprio comparto audiovisivo mostrando in alcuni casi delle naturali contrazioni, visto il periodo di crisi, ma una grande solidità. Al di là di un aumento del totale, diminuiscono alcuni numeri dei film francofoni, che però trovano nei festival e nella critica – come, per esempio, La guerre est declarée – riscontri importanti, tengono decisamente meglio i film di produzione francese in lingua inglese, come il fracassone ma divertente I tre moschettieri.
Interessante vedere come aumentino ingressi (66milioni) e box office (superati i 405 milioni di euro) ma diminuiscano i paesi d’uscita, da 64 a 51, con una centralità europea forte. Come ha sottolineato Régine Hatchondo, direttrice generale di Unifrance Films, a questo consolidamento di mercato e a questa diminuzione contenuta e non preoccupante della varietà geografica di diffusione, bisogna rispondere con un rilancio. Laddove in Italia si risponde alla crisi massacrando la cultura, “perché non si mangia”, qui invece si cerca di limare i punti deboli. E la volitiva e affascinante dirigente di questa dinamica società individua nello “svecchiamento” una delle vie di crescita, industriale e creativa. Puntare sui giovani, un comandamento sconosciuto nella nostra penisola, sembra essere la scommessa, anzi la necessità di una Francia che non si accontenta di vivere di rendita sui suoi divi- da Depardieu a Cassel passando per Delon e Deneuve- o sulla sua storia, come la Nouvelle Vague. E così si punta sui nuova media, che ospitano il www.myfrenchfilmfestival.com, alla sua seconda edizione.
Un’iniziativa ancora a diffusione ridotta ma crescente che vorrebbe, in un colpo solo, dare spazio ad artisti giovani e a un pubblico ad essi contemporanei. Un ricambio generazionale necessario per non rendere questi anni di successi solo una “bolla”. E a dimostrazione che la crisi non è un freno ma quasi un motore di questo settore- come dice il presidente di Unifrance Films Antoine de Clermont-Tonnerre “il cinema costa meno di ogni altro svago e proprio in questi periodi può rappresentare una controtendenza, soprattutto nel genere della commedia e dell’evasione”- ci sono già due casi a far ben sperare per il 2012: The Artist, fresco di tre Golden Globe, lanciatissimo nella corsa all’Oscar e che sta cavalcando in tutto il mondo l’onda lunga del suo successo, e Untouchables, che a Parigi e dintorni provoca file interminabili fuori dalle sale e sta abbattendo ogni record di incassi. Se il buongiorno si vede dal mattino…”

Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-01-18/francia-unifrance-successi-contro-112945.shtml?uuid=AaDSwZfE

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“È una gioia, un onore e una grande responsabilità presiedere la giuria del festival cinematografico più prestigioso del mondo, che si svolge in un Paese che ha sempre considerato il cinema con attenzione e rispetto”, ha commentato l’autore, Palma d’oro con La stanza del figlio nel 2001 e da sempre molto amato in Francia. L’anno scorso portò in concorso Habemus Papam con Michel Piccoli protagonista. Dopo tre americani – Sean Penn (2008), Tim Burton (2009) e Robert De Niro (2010), “il festival ci teneva a celebrare la 65° edizione con un presidente europeo”, ha detto il delegato generale Thierry Frémaux.”

Fonte: Cinecittà News

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19/01/2012

I due Presidenti

Da qualche giorno qui in film commission Puglia accoglievamo Antonella Gaeta al canto di “un Presidente, c’è solo un Presidente”! Era ed è il moto d’affetto nei confronti di una professionista che stimiamo e che ha iniziato il suo percorso alla guida della AFC con piglio, dedizione e consapevolezza sorprendenti.

Da ieri i ragazzi mi prendono in giro chiamando pure me Presidente, avendomi i colleghi dell’associazione nazionale delle film commission italiane, scelto improvvidamente quale loro rappresentante.
Ma io sono e rimango il “giovane direttore arrogante” come a qualcuno piace definirmi. E io me ne compiaccio.

Se in quattro anni e mezzo siamo arrivati sin qui, per certuni sarà stata arroganza, per molti altri tutto questo – fortunatamente – si chiama competenza, passione, amore per il proprio lavoro, dedizione totale, conoscenza profonda dell’arte cinematografica e dell’industria dell’audiovisivo.

Arroganti allora, se vi piace. Nella difesa del nostro lavoro nel quale ci onoriamo di essere considerati tra i migliori.

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19/01/2012

Liberalizzazioni

Raccolgo questo interessante pezzo di Maurizio Sciarra, che ringrazio, e posto:

Un po’ di cose apparentemente diverse tra loro si sono messe in fila in questi giorni e riportano il mondo dell’audiovisivo al centro dell’agenda politica di un governo che fa della trasparenza e dell’apertura dei mercati il proprio segno distintivo. Elenchiamoli, questi avvenimenti. Per prima cosa, l’asta delle frequenze. Poi, le nomine al Festival del cinema di Venezia, e a caduta quella della Festa di Roma. La cosiddetta crisi dei “cinepanettoni”. Le promesse di Monti di un intervento sulla RAI. 
Un paniere variegato, ma dalla cui analisi può emergere la costruzione di un quadro più chiaro e meno segnato da quel conflitto di interessi che, macigno inamovibile, ha segnato la storia degli ultimi 15 anni del nostro paese ed ha frenato lo sviluppo di una industria che in tutto il resto del mondo è servita come “intervento anticiclico” in questa crisi finanziaria ed economica: l’audiovisivo, il cinema, lo spettacolo, la cultura.
L’asta delle frequenze è stata una delle richieste qualificanti che, durante quello che si ricorda come il Movimento “Tutti a Casa”, che ha portato all’occupazione del tappeto rosso al Festival di Roma di due anni fa, tutto il mondo del cinema ha fatto ad un Ministro che diceva di non avere risorse per finanziare la cultura. 

Allora dicemmo che quei soldi potevano essere reperiti mettendo all’asta uno di quei beni comuni, l’etere, che in tutte le costruzioni fantascientifiche del futuro fatto dagli scrittori del secolo scorso non veniva ipotizzato come ricchezza dei popoli, e che oggi diventa strategico per lo sviluppo delle economie immateriali. Un bene che se messo all’asta, potrebbe creare oltre alla ricchezza “economica” anche un’altra ricchezza, che forse ci sta più a cuore : la ricchezza delle idee e dei linguaggi. Quella richiesta ci serviva anche per iniziare a riaffermare un altro principio: chi utilizza il cinema e l’audiovisivo per fare affari, deve contribuire al finanziamento di quel settore, che altrimenti non trova forme per remunerarsi. Sembrava una battaglia persa, avevamo un ministro che pareva ricordare meglio la sua passata (?) occupazione che il giuramento di fedeltà alla Costituzione su cui si basava il suo mandato. Sembrava, come ci dissero allora i produttori, una battaglia contro i mulini a vento.
Ma a volte anche i Don Chisciotte li possono battere, i mulini a vento! Oggi aspettiamo di vedere come sarà impostata l’asta, e come saranno utilizzati i proventi, che sicuramente saranno cospicui. Io, da parte mia, vorrei che questa fosse l’occasione per una apertura dei mercati delle “infrastrutture della conoscenza e della cultura”. Perché continuare a pensare le frequenze in funzione di una tv generalista che sta per scomparire e non invece come uno dei primi passi verso una dorsale di frequenze messe a disposizione di produttori e autori indipendenti, di chi fa televisione in un altro modo e qualche volta vuole accedere alle diffusioni “in grande stile”, di chi crea contenuti e però non ha accesso alle autostrade della trasmissione? Vorrei che venisse finalmente sviluppato quel settore che non è più avveniristico ma di pressante attualità, le TV over the top, la trasmissione di contenuti per IPad, quella che è sempre più la mega convergenza che soltanto pochi anni fa sembrava irraggiungibile. 

E qui si apre un’altra finestra. Come mai proprio la tv pubblica, che è stata storicamente all’avanguardia dell’innovazione tecnologica (i famosi ingegneri della RAI erano invidiati in tutto il mondo, neanche la BBC ce li aveva!) oggi non ha un progetto per il web, per la over the top, e usa i tanti canali digitali in suo possesso per veicolare merci anonime, senza creare palinsesti e proposte culturali per quei pubblici differenti, finalmente motivati e consapevoli che devono trovare altrove il soddisfacimento del loro bisogno? 

Da qui l’invito al Governo Monti a pensare alla “liberazione” della RAI fuori dalla logica della dittatura dell’informazione. La cattiva politica ha sempre guardato alla RAI come alla possibilità di “farsi vedere” e di veicolare informazioni pilotate. Le guerre alla direzione dei TG si sono combattute sempre per minuti o mezz’ore in più rispetto all’avversario, da confondere con una propaganda che si è fatta via via più volgare e settaria. Ma oggi è sotto gli occhi di tutti che quando le coscienze si svegliano, la domanda di cultura supera quella dell’informazione, sulle tv tradizionali. 
Per le infrastrutture tecnologiche di cui disponiamo (a proposito, possiamo ritornare a parlare di banda larga e cablaggio esteso, con accessi liberi, con questo Governo? Possiamo chiedere un forte antitrust per la proprietà delle torri di trasmissione? Magari con la gestione di una società “terza” rispetto ai broadcaster?) l’informazione può essere fruita liberamente attraverso internet, e questo ha decretato il crollo dei TG burletta, della Velina eletta a metodo di lavoro del giornalista; ma ancora c’è bisogno dell’etere (per poco, credo) per fruire comodamente e con qualità alta di cinema e spettacolo. 

E allora la RAI deve riacquistare la capacità di progettare e finanziare l’immaginario collettivo, fatto di voci e storie diverse, non più soltanto di “prima serata di RAI 1″ come il padrone della fiction dice da anni di dover fare. Si sa, quando i canali di diffusione sono pochi e in mano ad ancora meno soggetti, l’omologazione è la prassi! Come per esempio sta succedendo al cinema, da qualche anno a questa parte. Certo, le quote di cinema italiano non sono mai state così alte, ma vogliamo dirci che la qualità non sempre è all’altezza? Vogliamo dirci soprattutto che c’è la dittatura della commedia, imposta dai due centri decisionali che determinano i film che si producono? 

Quando le integrazioni verticali sono forti, e sono poche, c’è automaticamente restringimento di idee e di linguaggi. E così siamo oggi alla scoperta dell’acqua calda. “Il cinepanettone non piace più”! Ma dai! E’ la stessa storia della FIAT che si ostina a puntare tutto sulla Panda, e quando la Panda non serve più, dice che sono i consumatori che si sono stufati. Nessuno ha messo in campo sperimentazione o soltanto differenziazione dei generi, e quando si arriverà (non è un augurio ma una mera constatazione) alla crisi della commedia, passeremo un anno almeno a vedere film di altre nazioni che hanno realizzato generi e storie diversi, con toni e argomenti differenti. E anche qui sono le infrastrutture che vanno liberate. 

Catene distributive che fanno capo ai due grandi broadcaster, che dettano legge sulla scelta delle storie, e per uno dei grandi network un sistema di distribuzione e sale (molti multiplex) tarati ad accettare quel tipo di prodotto e non altro. Non si ha piena consapevolezza di un vero obbrobrio di una nazione che si dice liberale: pochi uomini in Italia determinano la programmazione delle sale cinematografiche, e quasi nessuno dei padroni dei cinema è libero di programmare quello che vuole, se vuol dare da mangiare alla famiglia. Non ci sono soltanto i tassisti contro cui scagliarsi, oggi! Però le faide interne al centro destra di governo degli enti locali, ci ricordano che ancora il cinema riveste una sua funzione diciamo così di “sottogoverno”. Basta pensare al miracolo compiuto da Galan poche ore prima di andar via di nominare Marzullo in una delle più delicate commissioni ministeriali, quella appunto che determina i finanziamenti alle manifestazioni di promozione del cinema italiano. E alle faide sulla direzione del festival di Roma. Il cinema, i festival servono allora come vetrina per tagli di nastri e tappeti rossi, anche quando li si è vituperati fino ad un’ora prima. La produzione di cinema e fiction serve a creare finte imprese per esercitare sottogoverno. 
Ecco, questo è tutto quello che vorremmo vedere spazzato via, da un governo che finalmente parla una lingua che a volte possiamo anche non condividere, ma che tuttavia ascoltiamo con interesse e fiducia.

Fonte:Articolo 21

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13/01/2012

Numeri fatti, tendenze e commenti

Roberta Romei

ROMA – 12 GENNAIO 2012 – Il segno negativo circa presenze e incassi nei cinema italiani ( – 7,92% di presenze e -10,03% di incassi nel 2011 rispetto al 2010; -14,23% di presenze e -14,69% di incassi nel periodo natalizio dal 16 dicembre al 6 gennaio, nel confronto dei due anni), che emerge dai dati Cinetel illustrati oggi in conferenza stampa dai presidenti dell’Anec (Lionello Cerri), dell’Anica (Riccardo Tozzi), dell’Anem (Carlo Bernaschi)e di Cinetel (Richard Borg), preoccupa ma non sorprende l’industria italiana convinta della buona salute della produzione nazionale e delle sue potenzialità che dovranno, secondo i rappresentanti di tutti i settori della categoria, essere esaltate lavorando su più campi, dalla produzione alla distribuzione all’esercizio, senza tralasciare né la pirateria né gli investimenti televisivi.(foto,da sin. a destra,Tozzi,Bernaschi,Borg e Cerri)
Nel 2011 la quota di mercato del cinema italiano è aumentata (con le coproduzioni è arrivata al 37,51% di presenze e al 35,53% di incassi, rispetto al 2010, che contava 31,90% di presenze e 29,17% di incassi), mentre è diminuita del 10% quella del cinema americano che non ha potuto contare su un film della forza di Avatar ( nel 2011: 46,70% di presenze e 48,46% di incassi; nel 2010: 56,89% di presenze e 60,15% di incassi). Complessivamente i film italiani con le coproduzioni insieme ai film europei hanno superato nel 2011 la quota americana, visto che hanno coperto il 51,28% di presenze e il 49,37% di incassi.
“Il dato italiano è importante” ha sottolineato Lionello Cerri (presidente Anec), ottimista per il futuro: “abbiamo visto un buon prodotto italiano ed europeo alle Giornate Professionali di Sorrento e tutto ci fa pensare che abbiamo buone possibilità di avere un 2012 simile al 2010, quando superammo i 110 milioni di spettatori”. Oltre la produzione e la distribuzione di buoni film – secondo il presidente dell’Anec – dovrà essere resa più razionale la distribuzione delle sale, aprendone di nuove laddove non ci sono e moltiplicando gli schermi laddove necessario, per un’offerta che risponda alle esigenze di tutti i pubblici e faccia della sala un punto di aggregazione sociale; ci si dovrà impegnare per riportare i giovani al cinema educandoli sia sul fronte artistico sia contro l’illegalità rappresentata dalla pirateria, e tutta l’industria dovrà continuare, come sta facendo ora, a lavorare insieme in un percorso comune. Tra gli impegni da realizzare a breve quello per una forte iniziativa promozionale che valorizzi i film e i cinema. Non sono sufficienti le risorse pubbliche messe a disposizione dallo Stato, quindi ne vanno ricercate altre, e Cerri ipotizza una lotteria nazionale che, come in Inghilterra, finanzi il cinema.
Anche Carlo Bernaschi (presidente Anem) vuole ripristinare le iniziative promozionali che in Italia vennero realizzate alla fine degli anni ’90. “Insieme all’Anec e ai distributori dobbiamo pensare ad una storica operazione, ad una Festa che riporti in sala i non spettatori. E lo dobbiamo fare nel 2012, che sarà un anno difficile, di sacrifici e serietà, nel quale tutte le categorie professionali del cinema dovranno essere unite per raggiungere grandi traguardi”. Soddisfatto Bernaschi per i risultati ottenuti dai multiplex: “il 54% dei biglietti nel 2011 è stato staccato nei multiplex, con il 56% del fatturato del settore”.
Per Riccardo Tozzi (presidente Anica) va sottolineato un dato positivo – la quota di mercato del cinema italiano ha superato il 37%, “una quota stellare” – e va esaminata una serie di problemi: il cinema italiano non deve essere offerto in modo discontinuo, ma costantemente e in un maggior numero di sale, soprattutto nei centri urbani dove c’è un pubblico che apprezza di più i film italiani e il cinema di qualità (“lavoriamo- auspica Tozzi – per un circuito di multisale urbane, che non sia più ostacolato dai tanti lacci burocratici che tuttora allontanano gli investimenti dei privati”); la produzione di film italiani deve aumentare e deve diversificarsi per evitare che la commedia diventi un monoprodotto; non devono diminuire gli investimenti televisivi nella produzione di film e deve essere difeso il Fus destinato al cinema.
Per Richard Borg (presidente Cinetel e da oggi presidente dei distributori Anica) una prospettiva positiva si delinea se non si trascura la lotta al consumo illegale di film – elemento di grande rilevanza anche per Cerri, Bernaschi e Tozzi – sull’esempio di quello che fa la Francia con la sua legge antipirateria e se si sfruttano le potenzialità del digitale che, se non ha contribuito ad aumentare il pubblico, può, però, portare maggiore flessibilità nella programmazione delle sale, soprattutto delle monosale, dando agli spettatori la possibilità di vedere più film.

Fonte: Giornale dello spettacolo

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12/01/2012

Furbizie tecniche e commerciali.

Gustoso e triste, dice una mia amica.

FULVIA CAPRARA
ROMA
Un tempo la colpa era tutta della tv commerciale. Solo sul piccolo schermo, soprattutto quello privato, era permesso “spezzare le emozioni”, torturare il telespettatore di film con l’orrida punizione dello spot pubblicitario inserito tra capo e collo, nel bel mezzo della più appassionante delle storie. Adesso, nel 2012, dopo le battaglie e le leggi, dopo le videocassette, i dvd, il satellite, la tv-fai-date, il palinsesto autogestito, lo spot torna a farla da padrone nel posto dove non avremmo mai pensato potesse accadere. Quale? La sala, luogo principe della visione, tempio, ancora per tanti, del cinema doc. Lo stratagemma è furbo, tecnico, e molto criptato nel senso che, nell’ambiente, quasi tutti lo conoscono, ma nessuno ne parla. Si basa sull’uso dei proiettori che possono essere leggermente velocizzati, ovvero mandati “a passo 25 invece che a 24″. Cioè? Il ritmo con cui i fotogrammi si susseguono viene leggermente aumentato: “Ogni 25 se ne può rubare uno, il che vuol dire che su un film di due ore si guadagnano 5-6 minuti”. E a che può servire quella manciata di attimi? A inserire gli spot pubblicitari che, per contratto, i proprietari delle sale sono tenuti a programmare, visto che le inserzioni costano, si vendono, e quindi devono necessariamente raggiungere il pubblico. Risultato: “I film in sala si vedono proprio come in tv, dove vanno già in onda a passo 25″.

L’accelerazione è ovviamente contenuta, non stiamo parlando di pellicole trasformate in farse alla Ridolini, però si fa, e succede che ogni tanto qualcuno se ne accorga: “Tecnicamente – ammette il presidente dell’Anec Lionello Cerri – è possibile, anche se un orecchio e un occhio capaci se ne accorgono subito. Non credo sia una pratica così diffusa e riconosciuta, magari è solo episodica, voglio dire non scientificamente organizzata, magari è solo il proiezionista di quella certa sala che una sera ha più fretta di andarsene a casa”. Oltre che agli inserimenti pubblicitari, la velocizzazione può essere utile quando si ha a che fare con film-fiume. In quel caso risparmiare tempo può servire a inserire nella programmazione uno spettacolo in più, la leggenda dei cinematografari dice che, ai tempi del primo Titanic, erano in tanti gli esercenti che premevano sull’acceleratore: “Non credo – ribatte Cerri – non è che se si risparmiano 5 minuti, puoi guadagnare una proiezione in più”.

Le opinioni, però, sono diverse, e, se si fa attenzione, anche un briciolo di secondo può tornare utile: “Su quattro programmazioni – spiega Paolo Pozzi, direttore della distribuzione della super-major Medusa – si potrebbero recuperare quasi 40 minuti”. Minuti che servono a tante cose, perché, in sala, prima che parta la pellicola per cui si è pagato il biglietto, devono susseguirsi diversi avvenimenti, quella famosa ritualità che rende così speciale l’esperienza del film visto in platea: “Bisogna calcolare la durata del film, i 12 minuti di pubblicità regolarmente acquistati, i 5 di intervallo, quelli per i trailer. Alla fine si fa un conto, si vede quanti spettacoli possono essere organizzati e in quali orari, se non è possibile far rientrare tutto, allora si decide di velocizzare”. Che, poi, dice Pozzi, lucido e pragmatico come il premier Monti cui somiglia, “significa vedere i film come poi li vedremo in tv”. L’unica salvezza è il digitale: “Lì non si può fare, almeno che non sia stato fatto in origine”.

Sulla sala, l’altare, per antonomasia, della fruizione cinematografica, quello per la cui sopravvivenza ci si spende, in tempi di scarico selvaggio, cala, inevitabile, un velo di tristezza. Anche perché, gratta gratta, le cattive abitudini sono anche altre. Per esempio? Far saltare i trailer “in testa ai film”. Ovvero, sulla copia del film da proiettare il distributore ha attaccato il trailer di un altro film del suo listino, nella speranza di far venire al pubblico la voglia di vedere anche quello: “Più volte accade che il trailer salti, cioè venga tagliato”. Il pubblico sente solo una specie di curioso singhiozzo (gli esperti parlano di “sgancio audio” e “fuori-sinc”), ma la sensazione è quella. Il punto, e viene da riflettere, è che il metodo televisivo ha contagiato quello cinematografico. Gli spezzoni pubblicitari delle pellicole sono a pagamento da pochi anni, quindi esistono regole, tariffe, norme, e non è pensabile che, se un film è più lungo, salti un pezzettino di immagini profumatamente pagate. Insomma, i tempi sono cambiati. Basta pensare che nella vecchia legge sul cinema (1213, del 1965), c’era scritto che i messaggi promozionali dovevano essere proiettati nelle sale con le luci accese, dispositivo che permetteva allo spettatore di occupare il tempo in altre attività. Oggi è tutto il contrario. Meglio un consiglio per gli acquisti in più che una briciola d’attore in meno.

Fonte: La Stampa

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12/01/2012

La nuova Cinecittà

Il 28 dicembre 2011 Cinecittà Luce s.p.a, Istituto Luce – Cinecittà S.r.L., i segretari nazionali di Slc Cgil – Fistel Cisl e Uilcom Uil , il consigliere delegato dell’associazione stampa romana,la Rsu aziendale, il direttore generale per il cinema dei Beni Culturali hanno firmato l’accordo per il trasferimento di 54 dipendenti al MiBAC, e per l’organigramma della nuova società Istituto Luce Cinecittà srl (il cui amministratore delegato sarà Roberto Cicutto, ndr) costituita in data 11 novembre 2011, in ottemperanza del Decreto Legge 6 luglio n. 98, convertito in Legge 15 luglio 2011, n. 111.
“E’ un passo importante della riforma – si legge in un comunicato di Istituto Luce Cinecittà – che è stato conseguito grazie al senso di responsabilità dei lavoratori, delle loro rappresentanze sindacali e degli sforzi fatti dall’azienda per mantenere il livello di occupazione necessario allo svolgimento delle attività della nuova società. In attesa del nuovo atto di indirizzo da parte del Ministro Professor Lorenzo Ornaghi, l’impegno di tutti non è solo rivolto al mantenimento delle attività principali svolte dalla Cinecittà Luce spa (conservazione e diffusione dell’archivio storico, promozione del cinema italiano classico e contemporaneo, distribuzione sul territorio nazionale di opere prime e seconde, supporto alle attività della Direzione Generale Cinema anche mediante propri organi di informazione), ma soprattutto allo sviluppo di tutte quelle opportunità che, in accordo con gli imprenditori e gli autori cinematografici, sono essenziali per la crescita della nostra industria cinematografica”ı. Il trasferimento del patrimonio di Cinecittà Luce alla nuova società (terreni, beni materiali e immateriali compresa la library, etc…) “è il punto di partenza per consolidare la nostra azione e dare attuazione al piano di sviluppo cui l’azienda si è impegnata verso i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali, ma ancor più verso il mondo della cultura e dell’imprenditoria perché Istituto Luce Cinecittà srl sviluppi sempre più efficacemente la sua attività di valorizzazione del patrimonio e di supporto alla crescita culturale e industriale del nostro cinema”.

Fonte:E-duesse

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12/01/2012

I nostri limiti strutturali.

Ecco di cosa parliamo quando si citano i limiti strutturali del nostro Paese…

E’ partita ufficialmente ieri l’avventura europea di Netflix che, come anticipato da e-duesse (vedi agenzia http://www.e-duesse.it/News/Home-video/Netflix-l-Italia-puo-attendere-117154) esordisce dapprima nei mercati di Gran Bretagna e Irlanda (dovrebbe esserci come successiva tappa la Spagna) entrando in diretta competizione con il suo servizio di streaming con, tra gli altri, Lovefilm e Amazon.
Il servizio è quindi disponibile in Uk al prezzo di 5,99 sterline (in Irlanda 6,99 euro) mensili, tariffa flat che consente di accedere all’offerta di titoli per il VOD. Tra gli studios che hanno siglato un deal con Neflix vi sono Disney UK & Ireland, Lionsgate Uk, MGM, Miramax, NBC Universal, Paramount, Sony Pictures, 20th Century Fox e Viacom.
Come è noto l’Italia, pur essendo considerata un mercato potenzialmente interessante, non rientra nei piani immediati della società guidata da Reed Hastings; certamente il lento sviluppo della Banda Larga frena al momento ogni possibile investimento.

Fonte: E-duesse

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10/01/2012

Analisi sull’esistente

Raccolgo in creative commons questa lunga riflessione di Luca Scandale e ve la inoltro. Va letta.

“Ieri per la prima volta ho visto il Grande Fratello. Ho twettato e seguito su facebook le evoluzioni. Immerso nel nulla cosmico dei social media, ho tradito il talk show a cui sono fedele “L’Infedele”. Una trasmissione anni ‘70. Non guardo più Ballarò, tantomeno Santoro. E confesso neanche Fiorello, né X-factor. Sky, il calcio, il cinema (anche in streaming), non mi fanno sentire la mancanza della politica-pop. Né della tv generalista. Che guardo, come il 90% degli italiani, formando le mie opinioni. Perchè mentre inseguiamo la “coda lunga”, il contagio culturale di massa è ancora in tv.

E il GF è stato “la tv” del 2000. Il tele-voto, il pathos dell’eliminazione, l’affermazione dell’estetica del nulla. In Italia è stato la rappresentazione plastica dell’ “egemonia sotto-culturale” che ha sbattuto Gramsci in soffitta. I reality sono un fenomeno global, ma in Italia la tv pubblica ha inseguito il privato. Avendo –unici al mondo- 7/8 talk-show insieme. Che con “Amici” e “Uomini e Donne” sono la base culturale di una generazione.
L’offerta ha generato domanda nel mercato e nei processi culturali. E il consumo ha provocato addiction (dipendenza). Affetti dal learning by doing, si è appreso consumando e la dipendenza è aumentata. Il consumo di prodotti semifori come il GF ha generato contagio di opinioni. La matrice delle interazioni sociali si è permeata nella visione individuale. E si è trasformata in coscienza collettiva. Il Grande Fratello così ha veicolato un “modello”. In un processo di auto-legittimazione culturale.

Ora però, ascolti alla mano, il GF è in crisi.
Ma è in crisi il “modello”? Si va affermando un modello alternativo di successo nella giovane Italia dei “neet” (not in education, employment or training)? O è in crisi il “mezzo” (la tv)? E quindi il “messaggio”? Ammesso che sia così, non per questo è in crisi il “modello” che sta dietro al messaggio. Oppure banalmente il Grande Fratello è diventato lento? Non genera pathos. Il televoto è stato superato dalla logica “mi piace”. E il GF non mi piace. Perché è cool dirlo. Che non mi piace. Sui social media. Quindi parafrasando una vecchia canzone: facebook killed the tv stars?

No, non è certo la rete che potrà generare dal basso una rivoluzione culturale pari a quella dei reality. Non in Italia perlomeno. Se pensassimo questo dovremmo credere che i prosumer (i consumatori che si fanno produttori) siano meglio dei broadcaster. Ed è qui la trappola della presunta “saggezza della folla”. Se la folla è stata mandata al macello culturale per dieci anni, cosa vi aspettate che produca? Un #occupysticazzi che si squaglia con l’arrivo del primo freddo. O un Teatro Valle con Guzzanti e Germano. I neuroni ora sono a specchio sul web: riflettono quel “modello” anche tra gli indignati contro il GF.
Infatti, come recenti ricerche dimostrano, la rete tende ad appiattire, conformare, semplificare. Quando invece oggi occorre complessità. In rete la saggezza della folla non vale perché ci si omologa. E il contagio delle opinioni è basato sugli “amici”. Se non la pensi come me, alla fine ti cancello. E se voglio dire “non mi piace” non posso dirlo con un tasto. Se “mi piace” invece si.

Le rivoluzioni culturali, perché di questo ci sarebbe bisogno, invece, la fanno le idee, non i tweet. Le rivoluzioni sono coscienze collettive in movimento, mosse dalle idee. Nelle reti sociali si vive di “esperienze”. Che hanno una forza debole rispetto dalle “idee”. Quelli che guardano il GF sono una comunità. Hanno legami forti, dei valori condivisi. Invece dall’altra parte, in rete, vincono i pensieri e i legami deboli. C’è molta più appartenenza nella community del GF, c’è vera empatia col successo di chi entra nella casa. Che non nella massa informe in rete che contemporaneamente guarda la tv (appunto) o è intenta a fare self-marketing postando qua e là foto, video e altre amenità.

Per questo gli indigados de noiartri invece che inseguire il “modello” GF, dovrebbero provare a creare una “coscienza collettiva”, puntare al trasferimento di conoscenza e di valori, alla costruzione di pensieri forti e di coscienza di “classe”. Anche perché se è vero che una generazione non è una classe per definizione. E’ altrettanto vero che in questa fase storica in parte lo è, e certamente non è solo un target da aggredire nel mercato della politica, parlando un linguaggio che sia comprensibile. Cioè semplice, rapido, banale, al più divertente, purchè frutti nell’immediato un risultato. Perchè altrimenti anche quelli che si oppongono culturalmente al GF rischiano di diventarne lo specchio, in una nemesi tra politica-pop, tv, cinema e star system, che scimmiotta l’originale senza averne la forza evocativa e il pensiero forte.

Ed è questo il limite della forma liquida della politica e dei partiti che oggi non a caso godono della fiducia di 4 italiani su 100. E ci scommetterei di 0 su 100 nei giovani che guardano il GF o che si indignano. Perché sussumendo i valori “estetici” dominanti, li hanno fatti propri nel leaderismo o nel parlare facile, nello “smacchiare i giaguari” o nel “che c’azzecca”. Se fa così, la politica si butta all’inseguimento di una generazione senza coglierne la portata culturale. Dentro le prime crepe del Movimento 5 Stelle, sul danaro e sulla rappresentanza (sic!), c’è uno spazio nuovo per chi vuol parlare a questa generazione. La retorica anti-casta infatti è destinata a sfiorire con la vittoria stessa di questi movimenti. Per questo nutro ancora una speranza: basta riprendere con forza le trame di un pensiero forte. Purchè non sia come filare e non tessere. Inseguire cioè una generazione banalizzando i messaggi, sarebbe come avere e non essere.

Occorre invece tessere una trama intra-generazionale e inter-generazionale, per evitare che in Italia anche fra vent’anni vinca la “peggiocrazia”. Tra gli eredi del GF e i satiri delle tv, saranno classe dirigente solo quelli che avevano un posto garantito dai genitori. E gli altri che non studiano né cercano lavoro, resteranno per sempre a guardare il dito e non la luna. Saranno il loro pubblico pagante, pronti a votare per un leader forte, fortissimo, purchè telegenico e social-mediatico. Se in questa aporia, nessuno sarà in grado di produrre un nuovo “modello” di successo. Allora i “peggiocrati” avranno ancora la meglio. Sono già qui, dietro l’angolo pronti a governare tra qualche anno. Quelli che si sono salvati al momento, sono i 2 milioni di Italiani di under 35 che se sono andati dall’Italia, dal 2000 ad oggi. Loro il Grande Fratello se lo sono scansato. E hanno lasciato a noi, il gusto amaro della lotta in salita contro i mulini a vento.”

Fonte:Go Bari