Parliamone, una buona volta. Una sola dai.
Tempo fa scrissi di me su questo diario. Ne scrissi pensando di dare coraggio ai tanti miei coetanei e più giovani che incontro nell’ambito della mia attività professionale. E scrissi che non sono figlio di nessuno, se non di due meravigliosi genitori fuori da ogni salotto o relazione importante. Scrissi che mi sono pagato gli studi lavorando ogni santa notte, sino alle 3 e oltre, in un famoso e fumoso pub barese. Scrissi che mi sono pagato il soggiorno a Londra chiedendo in prestito a mio padre due milioni di lire che ho restituito uno sopra l’altro in sterline, perché anche nel Regno Unito mi son trovato un lavoro per non pesare sui genitori e per essere, davvero, indipendente. Scrissi, inoltre, che dopo quattro mesi di stage fui assunto a tempo indeterminato da una delle principali produzioni cinematografiche indipendenti italiane. Non scrissi però che mi sono laureato con la lode, ai tempi in cui l’Università (dove, dopo, ho anche insegnato) non era ancora un ignobile sciocchezzaio produttore di titoli di studio vacanti.
Ho scritto tutto questo e ho lottato – ben prima della legge regionale sulla trasparenza – per pubblicare on line il bilancio della Fondazione che oggi dirigo con discreto successo, a sentire i produttori italiani ed europei con i quali quotidianamente mi confronto. Ma evidentemente tutto ciò non basta a qualche giornalista che ci ricama su il suo bel pezzetto di colore, completamente dimentico di raccontare i risultati che stanno dietro i numeri.
Ed io mi chiedo perché devo pure perdere il mio tempo a leggere tutte le cazzate di qualche rosicone che gioca a fare Dagospia in periferia?