Diario
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Il giorno di dolore che uno ha.

Uno dice sanità e pensa agli affari, alle cricche, ai concorsi per primario truccati, ad ospedali fatiscenti, al tentativo disperato della buona politica di far funzionare le cose secondo criteri di efficienza e giustizia, alle liste d’attesa, alla politica fellona che si mangia tutto, ai ferri in pancia, ai nosocomi, ai manicomi, alle Asl,  ai consultori, ai ticket, ai direttori generali, ai baroni, ai policlinici, ai donverzè o ai veronesi, alle malattie più assurde, al dolore muto che ci rifiutiamo di ascoltare, alla sofferenza come espiazione di colpe globali, all’infermità da donare al dio in cui ciascuno crede, alle strutture fatiscenti, alle cappelle, ai centri diagnostici, alle analisi del sangue, ai centri di eccellenza.

Io non ho avuto ancora la fortuna di credere nella trascendenza, in un ordine superiore che tutto vede e ascolta e accompagna. Da quando, diciassettenne, scelsi di fare il volontario soccorritore, prima di maturare l’idea che dev’essere la politica a occuparsi degli ultimi e a garantire tutti con l’organizzazione di uno stato sociale universalistico, per qull’età ho visto troppo dolore, ho seguito troppi incidenti, ho perso per sempre amici accompagnandoli sino all’ultimo istante, ho cercato di sorridere a troppi bambini malati; ho accompagnato troppi innocenti sull’altare di un Signore la cui cupidigia di sangue mi pareva ingiustificata e le parole di un parroco buono insignificanti dinanzi al mistero del completamento della vita, che chiamiamo morte. Vita, gioia, dolore, morte sono consustanziali all’essenza stessa dell’umanità perché si possa dare spazio a un’idea razionale, cioè umanistica, di trascendenza.

E tutto, purtroppo, si riduce al dogma del “prendere o lasciare”, credere o non credere. Per questo so di essere solo nel mondo, di camminare sulle spalle dei giganti, sapendo che Dio è dentro di noi, che il senso dell’etica si matura nelle convinzioni sociali, nel confronto con l’altro da sé, che non esiste una legge di natura immodificabile, che ogni valore ha un suo contrario e la costruzione di una società avviene per successive stratificazioni di valori condivisi, per i quali uomini e donne sono disposti a lottare.

L’umanesimo in cui credo delega all’Uomo i diritti e i doveri, che non possono essere mai disaccoppiati o demandati a una fede esterna alla natura degli uomini che son fatti di materia e di bisogni.

Per questo oggi, che mi sento grande e affaticato, sì, affaticato dalle cose della vita, se parlo di sanità mi impongo di parlare di quel che vedo.

In questi ultimi giorni ho visto l’eccellenza nelle persone che la fanno, ciascuno come sa e come può. Ho sentito le parole risolute e dure di chi deve annunciarti cattive notizie e procurarti dolori non marginabili. Ho visto la faccia apprensiva della dottoressa di turno all’accettazione nel pronto soccorso di un piccolo ospedale pugliese, uno di quelli salvati dal nuovo piano sanitario regionale. Ho visto il prodigarsi e il sorriso della chirurgo. Ho visto il lindore dei reparti, l’attenzione premurosa delle infermiere dinanzi alla emergenza. Scoglionate da stipendi miserrimi, ma sempre lì, con la stessa lena di sempre a lottare per fare presto, per dare riparo ai sofferenti, per donare un sorriso ai parenti, per dire ch’è andato tutto bene, che non c’è più da preoccuparsi, che ci si può tornare ad occuparsi delle cose della vita; che la morte è ancora lontana eppure, sempre vicinissima.

Da oggi dirò sanità e penserò agli sguardi di quei professionisti del dramma, che si sono dati la missione dell’eccellenza perché, al di là di ogni patimento, frustrazione, durezza, la sanità vive di chi la fa.

E, ogni volta che dirò Dio, penserò alle migliaia di medici che provano a curare, ai ricercatori che provano a innovare, ai missionari che provano a tamponare, agli insegnanti che provano a migliorare, agli artisti che provano a creare, ai politici che provano a cambiare, agli architetti che provano a inventare, ai lavoratori che provano a campare. Penserò a tutti quelli che provano, cioè, lasciando un segno nel proprio tempo e creando filamenti di solidarietà, certezza di società.

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