Diario
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Il perfomativo vuoto.

Ho letto questo lungo e molto intelligente articolo di Christian Raimo apparso ieri su Il Manifesto.
Mi piace condividerlo.

Rassegniamoci, almeno fino a settembre, ottobre sarà così: le prime pagine di politica saranno colonizzate da questioni del tipo Fini era o meno nella casa a Montecarlo a cambiare i pannolini? Ma, prima che si vada verso elezioni o frankensteiniani rimpasti di maggioranza, magari la sinistra potrebbe trovare il modo per non farsi trovare spiazzata. Lo notava Ida Dominijanni su queste pagine: qui non si tratta di scaramucce estive, questa è una crisi di sistema del centrodestra.
Per fortuna, chi ha orecchie per intendere (un Vendola, un Civati, un Asor Rosa…) insiste che, oltre che discettare di leadership e alleanze, occorra ricostruire una condivisione su alcuni temi, questione finora sempre marginale. Primo passo giustissimo, ma. Bisognerà anche riconoscere come ci sia un livello più carsico di quello degli obiettivi o dei programmi: una dimensione che uno finisce per chiamare “prepolitico”, se il “politico” appunto è ormai lo shopping immobiliare di casa Fini-Tulliani. Non si sente da più parti l’esigenza di una nuova alfabetizzazione, che riesca a minare quella ventennale dittatura retorica di cui Berlusconi è tanto causa quanto sintomo? Mica vogliamo ritrovarci con un Berlusconi politicamente defunto, ma al suo posto tanti zombi clonati dall’orrendo originale.
Quest’oriente l’ha evocato l’articolo di Fontana (manifesto,12 agosto) sulla scomparsa del valore della verità dal discorso pubblico. Lo stato di crisi che va affrontato, secondo Fontana, non è solo quello superficiale di una maggioranza che non riesce più a governare col suo mix di corruzione e belletto mediatico. Il trauma che dobbiamo fronteggiare è civile, è sociale, è il nostro. Si tratta di una perdita, da un punto di vista logico e quindi morale, della pratica riflessiva in generale: chi ha più a cuore la verità? L’argomentazione razionale è stata soppiantata dall’opinione, dalla pseudoinformazione. Gossip, mancanza di professionalità in ogni campo, cazzeggio, massoneria di serie b, notizie à la Minzolini: questo è il paesaggio che ci tocca.
Il punto è nodale, ma la tensione etica rischia di illuderci sulla sua forza strategica.
Dovremmo essere parresiastici, come facevano gli antichi greci in tempi di crisi politica: ossia contro la finzionalità dell’Italia televisivoide che ci circonda, dovremmo incarnare quella verità bistrattata come in una forma di resistenza morale. L’esortazione è da condividere; ma il nemico è più plastico, e la domanda che ci dovremmo porre è più ampia.
Ovvero: quale è stato il linguaggio dominante della Seconda Repubblica? Quello che va tenuto presente è che con il berlusconismo si è attuato un cambiamento totale nel nostro modo di parlare, e quindi di relazionarci con il mondo. La Seconda Repubblica non è stato solo un sistema di potere, ma è stato un sistema di potere che si è fatto sistema linguistico, nuovo assetto sociale.
Qual è stata la più significativa trasformazione che ha portato la discesa in campo del ’93, in questo senso? Che Berlusconi ha via via fatto piazza pulita del livello referenziale del linguaggio, sostituendolo con un livello che potremmo definire “performativo vuoto”. All’inizio del secolo scorso Wittgenstein sosteneva l’impossibilità di uscire dai limiti che il linguaggio stesso ci impone. Cinquant’anni dopo John Austin mostrava come questo linguaggio in cui siamo immersi comprende anche molte delle azioni che compiamo (come promettere, minacciare, testimoniare…), e chiamava questo livello performativo.
Oggi possiamo vedere che qualunque cosa Berlusconi dice non si riferisce a una questione in sé (che siano le tasse, il governo, il terremoto, le elezioni…): quello che Berlusconi dice è appunto sempre un fare. È un mostrare di esserci, è rassicurare gli italiani con i “ghe pensi mì”, è farsi vedere sorridente o abbronzato o ferito, è insultare l’opposizione, è fare killeraggio mediatico attraverso i giornali di famiglia, è vantarsi dei propri risultati o delle proprie virtù sessuali, è divertire con qualche barzelletta, è promettere cure per il cancro… Finisce con l’essere indifferente se le sue frasi siano sensate, ancorate al reale, non autocontradditorie… Il senso di ciò che dice sta sempre nell’effetto che queste frasi producono. Per questa ragione Berlusconi può permettersi di essere implicitamente violento (considerate quanta violenza sottintesa sta in un’affermazione come quella sul cancro…). E per questa ragione può permettersi di enunciare un giorno una cosa e smentirla il giorno successivo. Le sue affermazioni non devono passare il vaglio della coerenza logica o morale. Quello che andrà valutato del suo discorso – se riconosciamo che il senso coincide con l’effetto – sarà solo l’effetto che farà la smentita il giorno dopo.
È interessante l’esperimento realizzato da John Bullock, uno scienziato politico dell’Università di Yale (ne parla Wu Ming 2 nella Salvezza di Euridice): Bullock ha preso un gruppo di progressisti americani e gli ha chiesto quanti disapprovassero il trattamento dei prigionieri a Guantánamo. Risultato: il cinquantasei per cento. Quindi ha mostrato alle cavie un articolo di “Newsweek” dove si raccontava di una copia del Corano buttata nel cesso della base americana. La percentuale dei critici è salita subito al settantotto per cento. Infine, ha fatto leggere a tutti la smentita della notizia, pubblicata dallo stesso giornale. La percentuale è scesa, ma solo fino al sessantotto per cento. Dunque: la cattiva informazione ha effetto anche se viene smentita.
Si capisce forse così perché il richiamo di Fontana a un recupero della verità rischi di essere un’arma spuntata nei confronti della “performatività vuota” del discorso berlusconiano. È questo il gioco linguistico in cui siamo precipitati. Nell’indifferenza del senso, vale chi fa più effetto. A questo gioco siamo costretti a giocare da ormai vent’anni. È questa la retorica che si impara dai media, e ormai spesso anche a scuola, in famiglia, in tutta la società.
Se la sinistra prova a praticare un’altra retorica, se la sinistra propone le sue ragioni, Berlusconi ha sempre una gran facilità a controbattere. Sa semplicemente giocare meglio a quel gioco linguistico che lui stesso ha contribuito a rendere sistemico. Gli basta performare atti linguistici vuoti, ma vincenti: fare la vittima anche se è l’uomo con più potere di tutti, tagliare corto quando il confronto tocca questioni reali, urlare più forte, sorridere, surclassare, contrapporre sempre la propria auto-promozionalità…
Bisognerebbe allora forse – da parte di chi vuole sconfiggere il berlusconismo anche quando Berlusconi in carne e ossa non ci sarà più – imparare a maneggiare un po’ meglio questa retorica “performativa vuota” e rovesciarla a proprio vantaggio. Facciamo tre esempi.
1) Si tratta di mettere sempre in evidenza la non-neutralità del contesto in cui parliamo. Confrontiamo la nettezza di un Pasolini nella famosa intervista tv con Biagi quando sottolineava come la televisione di massa fosse comunque una macchina antidemocratica, con l’aplomb di un Bertinotti che si accomodava placido sulle poltrone di Anna La Rosa o di un Veltroni che ha condotto l’ultima intera campagna elettorale in cui appena poteva faceva l’elogio preventivo del contesto, dello studio televisivo in cui veniva ospitato. E poi facciamo un ulteriore accostamento: quello di un Berlusconi che interviene a gamba tesa in diretta tv e comincia a insultare conduttori e programmi. Notate la differenza dell’effetto, e quindi del senso? Forse si dovrebbe ricordare continuamente a chi ascolta come la cornice della comunicazione condizioni il messaggio, fino a sovradeterminarlo.
2) Imparare a essere più bravi dei berluscones, diventare dei perfomer più brillanti. Sia rispetto a quegli ambiti in cui Berlusconi è chiaramente carente – perché nessun leader di sinistra lo invita a esprimersi in inglese in pubblico? – sia in quegli ambiti che vengono sempre stigmatizzati come i suoi lati folkloristici. Berlusconi fa ridere perché racconta barzellette, le storielle come le chiama lui? Occorre allora sapere essere più comici, più paradossali, più persuasivi. Avete presente Jòn Grarr, per fare un nome, il nuovo sindaco che ha vinto a Reykjavik?
3) Mettiamo che invece di provare a opporre delle ragioni logiche, un discorso fondato, a un Berlusconi che fa proclami deliranti sul cancro sconfitto in tre anni, noi scoprissimo le carte di questo stile pubblicitario: esasperandolo, prendendolo alla lettera. Un leader di sinistra potrebbe dire: “Tre anni sono troppi: la sinistra lo farà entro l’autunno”. Oppure: rispetto a Berlusconi che disegna un qualsiasi progetto politico, si potrebbe replicare: “Apprezziamo molto le posizioni di Berlusconi, l’unica nostra preoccupazione è che Berlusconi puzza, stargli vicino è un problema”. Berlusconi è brutto, Berlusconi puzza, Berlusconi è vecchio, Berlusconi non sa l’inglese, Berlusconi si mangia le parole, Berlusconi c’ha le orecchie a sventola, Berlusconi ha la pelle grassa, etc… Se non fosse per queste ragioni, sarebbe un valente statista.
Questo non è abbassarsi al suo livello, questo è comprendere il suo habitus linguistico. Che è perennemente aggressivo, insultante, parossistico. Se quando Berlusconi si riferisce a Rosy Bindi può liquidarla senza troppi pudori come una lesbica racchia, se il suo Giornale può titolare a nove colonne “Boffo frocio”, perché non pensare di opporsi a questo stile provando a disinnescarne la violenza evidente e implicita? Non basta fare i signori. Non è sufficiente esibire un altro stile. E non si tratta neanche di rispondere a violenza con violenza. Occorre invece mostrare l’inefficacia di quest’aggressione, sabotando la violenza. Pensate al riutilizzo della parola queer come forma di rivendicazione identitaria: l’insulto che si trasforma in uno slogan. E con il linguaggio berlusconiano il passaggio di cui abbiamo bisogno è ancora più radicale: rispetto a un linguaggio che non è dialettico ma performativo, l’unico contrasto possibile è fare fallire il suo atto.
Come? Se qualcuno fa un’affermazione, io posso oppormi replicando che è vera o falsa, condivisibile o meno: mi confronto con il contenuto di quest’affermazione. Ma se io voglio oppormi a qualcuno che non enuncia un’affermazione, ma fa una minaccia, una promessa, una testimonianza, non ha senso che io mi confronti con il contenuto di questo atto. Posso piuttosto mostrare che questa promessa non è valida, che questa minaccia non è efficace, che questa testimonianza non è credibile. Posso insomma invalidare l’atto linguistico. Così con Berlusconi non ha senso criticare questa o quella sua affermazione, ma ha più forza delegittimare costantemente il suo discorso. Smettiamo di porre questioni morali (a che è valso scandalizzarsi perché frequentava minorenni o perché la sua ricchezza è in odore di mafia?) o di disprezzare il suo progetto politico (quale?): ciò che serve per smontare Berlusconi è semplicemente mostrare che si tratta di un pessimo performer, un attore di quart’ordine, un cantante da crociera floscio a cui spetta la pensione. È un vecchio rompipalle, neanche una cattiva persona.

Fonte: Il Manifesto

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