TQ
Come dare torto a Costanza?
“Venerdì 29 aprile a Roma, presso la Casa Editrice Laterza, si è svolto un incontro alquanto inedito e sorprendente. Un centinaio di scrittori nati negli anni settanta (ma anche sessanta) si sono riuniti, chiamati all’appello da un articolo apparso nel domenicale del Sole 24 Ore a firma di Giuseppe Antonelli, Mario Desiati, Alessandro Grazioli, Nicola Lagioia e Giorgio Vasta.
Cos’era esattamente quell’articolo? Una lettera? Un manifesto? Una chiamata alle armi? Non solo il punto di partenza per una riflessione collettiva, direi molto di più.
Lungi dal voler imbrigliare la generazione dei trenta quarantenni in definizioni di comodo o semplicistiche che rispondono a istanze identitarie generatrici di consenso, quell’articolo tocca corde profondissime. Non è l’urgenza del definire, del separare e del distinguere attraverso l’uso di un linguaggio comune e condiviso, direi conformista, è piuttosto lo spunto per una riflessione urgente e assolutamente necessaria.
Ho deciso di uscire allo scoperto per cercare di capire qual è la questione.
A proposito della generazione TQ (Trenta Quaranta) cito testualmente: “Siamo cresciuti in ordine sparso, senza un’ideologia comune. Senza metodi, strumenti, terminologie condivise: e questo forse è stato un bene. Ma l’individualismo al quale siamo stati addestrati rischia ora di renderci afasici: ognuno chiuso nel suo recinto, quale impatto abbiamo sulla realtà? (…) Manchiamo di un’identità collettiva che ci contrapponga alle generazioni precedenti (…) A quale idea di cultura pensiamo quando produciamo qualcosa? E soprattutto: ha ancora un senso produrre cultura? Oggi va più di moda comunicazione.”
La citazione non è una sintesi perché molti altri sono stati, nell’incontro, gli argomenti sul tavolo. Per tre ore ho assistito, unica cineasta presente con le orecchie spalancate ad ascoltare, a una discussione tra scrittori come una speleologa determinata a disseppellire e decodificare il senso intimo di quell’adunata.
Ciò che mi è rimasto più di ogni altra cosa, è un senso di pienezza e di placida euforia. Ho partecipato a una specie di censimento, un annusarsi reciproco, un conoscersi e riconoscersi, il tentativo di capire se esiste un terreno comune e soprattutto quali sono gli orizzonti di riferimento per ciascuno. Scurati ha ricordato il giorno in cui per la prima volta noi tutti abbiamo assistito dalle nostre comode case alla guerra del Golfo in diretta televisiva. Era il 1991. Mi ricordo che andavo ancora a scuola ed ebbi la sensazione chiarissima che quello era il primo atto di ciò che sarebbe stato un lungo, reiterato, continuato e asfissiante addormentamento dei recettori del reale, tanto che ci troviamo oggi a discutere di ciò che è vero alla luce di quanto il flusso televisivo fagocitante ci restituisce sotto forma di bolo consumato.
Tornando agli scrittori, la domanda è semplice: Sono o non sono in grado di proporre un punto di vista sulla realtà? Oppure vivono in un iperuranio parallelo in cui si parlano fra loro, lontani dal mondo reale e dal paese in cui vivono?
Sono certa che questo terreno di discussione debba andare oltre l’ambito della letteratura. Noi nati negli anni settanta abbiamo tutti il dovere di un’assunzione di responsabilità. L’assunzione di responsabilità è soprattutto un atteggiamento mentale, significa non delegare, interrompere lo stato di attesa permanente in cui vivere e vivacchiare si confondono lasciandoci la sensazione di non essere all’altezza dei nostri stessi bisogni. Abitiamo il tempo del rimandare, in attesa di uno stato adulto che spesso non è che l’esperienza della furbizia e della legge del più forte.
È lo statuto dell’incertezza, del chiedere permesso. Non ci riteniamo all’altezza di intervenire nel dibattito culturale del nostro paese aspettando che da qualcuno arrivi una qualche forma di legittimazione. Questo ovunque. Anche nel cinema. Ci adagiamo su ciò che da anni ci viene detto sia importante per il mercato, nelle beghe di potere che hanno a che fare con la conservazione dello status quo. Per il resto, che facciamo?
Sono certa che i cineasti di questo paese debbano contarsi, confrontarsi, scontrarsi anche. L’importante è esistere al di fuori di noi stessi, dell’individualismo in cui siamo cresciuti, alimentato soprattutto dall’abitudine a una competitività che non è sana perché è rabbiosa e per nulla costruttiva. Non siamo animali in gabbia, pronti a uccidersi l’un l’altro per spartirsi la miserrima pagnotta che il cosiddetto mercato italiano concede. Dimostriamolo.
Lancio questo appello perché la riflessione aperta a Roma dagli scrittori nati negli anni settanta, serva ai cineasti della stessa generazione per uscire fuori dalla propria immobilità e provare a immaginarsi non come un corpus ma come tanti cervelli diversi capaci di proporre ciascuno un proprio punto di vista sul nostro paese e su sé stessi. La percezione del tempo è fondamentale. Prendo a prestito lo slogan dei precari: il nostro tempo è adesso e la vita non aspetta.
Non si tratta di rifare la nouvelle vague, piuttosto di riformare la percezione di noi stessi. Abbiamo il dovere di accettare la sfida, prendere la parola, dire la nostra. Lo dobbiamo fare esponendoci pubblicamente perché non possiamo più rimandare se non vogliamo essere, ancora una volta, la generazione saltata, compiacente, silente, addormentata dai gas della guerra del Golfo in diretta televisiva.”
Costanza Quatriglio