Articolo 18 & Co.
Lo Statuto dei diritti dei lavoratori è la legge numero 300 del 1970.
Frutto maturo degli anni di lotta sociale e politica precedenti, fu redatta, fra gli altri, dal grande giuslavorista Gino Giugni, un socialista riformista di enorme spessore culturale e padre nobile della migliore scuola giuslavorista italiana. Insegnò anche a Bari dove ha formato i suoi migliori allievi (alcuni dei quali sono stati miei docenti universitari e me ne glorio).
Tale legge è stata poi innovata dalla sua “editio minor”. La numero 30 del 2003. Uno zero in meno che racconta molte cose…
L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, di cui oggi tanto si parla, dice letteralmente questo:
“Ferme restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.”
Dunque impedisce che, nelle aziende con più di 15 dipendenti un lavoratore venga licenziato “senza giusta causa o giustificato motivo”. In altri termini è una legge che evita ogni sopruso e tutela la parte più debole nel sinallagma contrattuale di lavoro: il salariato.
Semplice e chiaro.
Parlare di articolo 18 come tabù, dunque, mi sembra una provocazione inutile. L’articolo 18 non va toccato perché evita soprusi e discriminazioni. Il manager o l’imprenditore che vogliano allontanare un dipendente di cui non hanno più fiducia, devono giustamente invocare un “giustificato motivo” e non possono cacciarlo perché ritenuto antipatico o fastidioso. Tutto qui.
Altra cosa, invece, a sinistra come a destra, è la considerazione di un sistema di inquadramento unico che favorisca l’accesso al lavoro. Lì dove, invece, l’articolo 18 favorisce l’uscita dal lavoro!
E qui si, occorre svolgere un dibattito senza tabù.
Io penso, da manager democratico dotato cioè di sensibilità politica e sociale, che un contratto unico possa rappresentare un elemento di grande vivacità e tutela. Soprattutto se accompagnato da un modello di flexsecurity alla danese, che consenta di avere un paracadute che protegga il lavoratore, espulso dal ciclo produttivo, con un periodo di formazione pagata dallo stato e che lo incentivi a trovarsi un nuovo lavoro.
Parallelamente, sarei molto felice di assumere i tanti collaboratori a progetto a tempo determinato, se solo il costo del lavoro fosse compatibile con le risorse rivenienti dai progetti che gestiamo e attiviamo. Ma questo tema chiama in causa la fiscalità generale e dunque va trattato con molta consapevolezza tecnica e grande sensibilità politica.
In sintesi estrema io faccio il tifo perché si trovi un accordo che tuteli i lavoratori in entrata e in uscita e che garantisca ai datori di lavoro di spendere molto di meno – in termini contributivi e pensionistici – per il lavoro stabile.
E’ una grande sfida. La più importante, non per Monti e la Fornero, ma per tutte le classi dirigenti del Paese, comunque siano esse collocate.
Speriamo sappiano coglierla in pieno.