Perché ha senso fare un Distretto
Pier Luigi Sacco, già (co) autore di uno dei libri più significativi scritti negli ultimi anni su cultura e creatività in Italia*, ci consegna questo breve e denso articolo che spiega l’importanza della diffusione di creatività come fattore sociale e non come polarizzazione istituzionale di (soli) eventi o di centri di ricerca. Sempre molto utile leggerlo. Eccolo: Non sono soltanto i temi della stabilità che definiscono un’Europa a più velocità: anche nel campo della produzione culturale e creativa il nostro continente appare sostanzialmente diviso in due. Da un lato il nord Europa, che punta decisamente sullo sviluppo dell’industria culturale e creativa e quindi sulla produzione di nuovi contenuti culturali. Dall’altro, il sud Europa che, con la parziale eccezione della Spagna, identifica lo sviluppo a base culturale soprattutto con il turismo culturale e i grandi eventi. Nel nord Europa, l’accesso alla cultura è generalizzato e interessa la gran parte della popolazione di tutte le fasce di età. Nel sud Europa, è invece molto più polarizzato e riguarda una percentuale limitata di popolazione, a cui si contrappone una percentuale importante che risulta poco o per nulla interessata alla cultura. Il livello di accesso culturale della popolazione è decisivo per determinare la capacità di sviluppo associata alla cultura: non solo perché definisce implicitamente la dimensione del mercato, ma anche perché riflette atteggiamenti sociali molto differenti. Nei Paesi in cui prevale la logica del turismo, ci si tende ad avvicinare alla cultura in modo passivo, da spettatori che giudicano un prodotto soprattutto per il suo valore di intrattenimento; in quelli in cui prevale la logica della produzione, invece, la cultura suscita atteggiamenti pro-attivi, porta cioè le persone a partecipare più direttamente alla produzione dei contenuti, sviluppando capacità e competenze a prescindere dal fatto che ci si prefigga di diventare dei professionisti del settore. Non si tratta di una differenza da poco: se infatti in una logica di mercato tradizionale lo sviluppo di competenze culturali “amatoriali” produce effetti economici soltanto nella misura in cui si traduce in una maggiore domanda di contenuti culturali prodotti dai “professionisti” che stanno appunto sul mercato, nei nuovi scenari della produzione e circolazione di contenuti culturali – attraverso le piattaforme digitali e i social media – si definiscono nuove modalità di partecipazione e di creazione di valore economico attraverso la cultura che non passano più necessariamente attraverso il mercato e che danno alla partecipazione culturale una eccezionale quanto ancora poco percepita valenza strategica. In Italia la dimensione dei mercati culturali è relativamente ampia, mentre la partecipazione è relativamente bassa se confrontata agli standard europei: Paesi come il nostro rischiano di essere incapaci di approfittare delle nuove forme di vantaggio competitivo associate alla cultura. In che senso la partecipazione produce valore? Ci sono almeno otto aree in cui ciò accade senza che necessariamente ci siano prodotti e contenuti comprati e venduti attraverso i mercati: l’innovazione, il benessere, la sostenibilità ambientale, la coesione sociale, il soft power, l’identità locale, la società della conoscenza e le nuove forme di imprenditorialità. Consideriamo l’innovazione: le ricerche mostrano che i Paesi più innovativi sono quelli in cui si osservano i più alti tassi di partecipazione culturale attiva. La ragione? La cultura agisce da “piattaforma di pre-innovazione”. Attraverso la partecipazione culturale, i cittadini si abituano a essere in contatto con idee nuove, a mettere in discussione convinzioni e pregiudizi, a fare esperienza dell’altro da sé. È una vera e propria “ginnastica cognitiva”. Ciò che rende un Paese molto o poco innovativo non è infatti tanto il numero di centri di ricerca che producono scoperte interessanti, quanto la capacità dell’economia e della società di quel Paese di recepirle e trasformarle in processi, prodotti, modelli di significato. Allo stesso modo, la partecipazione culturale ha effetti importanti sulla durata media della vita e sulla sua qualità: più si vive in mezzo alla cultura, meglio ci si sente, e ciò ha conseguenze importanti su variabili come il tasso di ospedalizzazione (soprattutto negli anziani e nei soggetti con malattie croniche) e quindi in ultima analisi sulla spesa per il welfare, un elemento che, in un continente che invecchia come il nostro, produce conseguenze macroeconomiche molto importanti. La cultura, dunque, è un vero e proprio software sociale che fa funzionare meglio qualunque altro settore e aspetto della vita. Senza questo software, tutto funziona meno bene. Le politiche culturali sono autentiche politiche di coesione e di competitività: una lezione da imparare bene e in fretta.
Fonte: Sole24 Ore