Nella crisi i consumi culturali non calano
La crisi in Italia si fa sentire in tutti i campi, ma non spaventa la cultura. Nel 2011nel nostro Paese la spesa delle famiglie in questo settore ha raggiunto 70,9 miliardi di euro, con un incremento del 2,6% rispetto al 2010. Lo rivelano i dati contenuti nel Rapporto annuale Federculture 2012 ‘Cultura e sviluppo. La scelta per salvare l’Italia’, che sottolineano come musei e teatri vincano la sfida con vestiario, calzature e generi alimentari, per i quali la spesa è cresciuta nell’ultimo anno dell’1,3% per le prime due voci e 1,2% per la terza. In uno scenario di crisi in campo economico, politico e sociale senza precedenti per l’Italia, il settore della cultura dimostra ancora vitalità e grandi potenzialità di sviluppo, anche in un periodo così difficile. Nel volume presentato all’Auditorium del Museo MAXXI a Roma, si evidenzia tra l’altro che fra il 2008 e il 2011 la spesa per la cultura ha registrato un incremento del 7,2%. Ancora più evidente l’incremento nel decennio 2001-2011: ricreazione e cultura hanno registrato un +26,3%. Bene teatri e musei. Gli italiani amano sempre di più gli intrattenimenti culturali, secondo il Rapporto. Negli ultimi dieci anni sono andati di più a teatro (+17,7%), hanno ascoltato più concerti di musica classica (+11%) e visitato più monumenti e siti archeologici (+6%), anche se bisogna considerare che nel complesso la fruizione teatrale nell’ultimo anno è calata del 2,7% e quella dei concerti del 2,8%. Ma i dati sui siti culturali statali spingono all’ottimismo: i visitatori nel 2011 sono stati oltre 40 milioni (+7,5%), per 110,4 milioni di euro di introiti lordi (+5,7%), un trend di crescita quasi costante negli ultimi 15 anni e che ha visto gli ingressi a musei e aree archeologiche passare dai 25 milioni del 1996 ai 40 di oggi (+60,2%). “Il nostro patrimonio di arti e di saperi è un vero capitale, non solo culturale, ma economico – afferma Roberto Grossi, Presidente di Federculture nel suo saggio di introduzione al volume – Ma il punto è che la ricchezza economica non è generata dalla quantità o dall’importanza dei beni culturali. Magari bastasse essere il Paese che ha il maggior numero di siti Unesco (47 su 936), la maggior quantità di aree archeologiche, musei, chiese, archivi storici rispetto a ogni altro Paese al mondo. La domanda culturale cresce in relazione allo sviluppo delle politiche culturali e a quello del sistema di produzione e di offerta. Per questo serve una politica pubblica”. Positivo anche l’andamento del turismo, con il 5,4% in più di arrivi di viaggiatori stranieri rispetto al 2010. Investimenti in calo. Sempre più evidente è la riduzione del finanziamento pubblico alla cultura: negli ultimi dieci anni il bilancio del MIBAC è diminuito del 36,4%, arrivando nel 2011 a 1.425 milioni di euro contro i 2.120 del 2001. In rapporto al bilancio totale dello Stato lo stanziamento per la cultura ne rappresenta solo lo 0,19%, mentre è appena lo 0,11% del Pil. Cifre cui si è giunti dopo un lungo declino della spesa pubblica per la cultura. Basta pensare che dopo la guerra, quando il Paese doveva essere ricostruito e i cittadini avevano bisogno di ritrovare speranza per il futuro, lo Stato destinava alla cultura lo 0,8% della spesa totale (1955), cioè il quadruplo di quanto investe oggi. Stessa sorte ha avuto il Fondo Unico per lo Spettacolo, che dai 501 milioni di euro del 2002 è stato ridotto ai 411 milioni di euro del 2012, diminuendo in un decennio del 17,9%. A questo si aggiunge il venire meno delle risorse investite dagli Enti Locali, in particolare dai Comuni. Una ricerca contenuta nel Rapporto su un campione di 15 Comuni (tra cui Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Roma, Torino) dimostra come tra il 2008 e il 2011 la spesa culturale delle amministrazioni comunali, in particolare per la parte relativa agli investimenti, sia diminuita mediamente del 35%. L’incidenza della voce cultura sui bilancio comunali, nelle amministrazioni considerate, scende al 2,6%. Proiettando questi valori sul totale della spesa in cultura dei Comuni (circa 2,3 miliardi di euro fino al 2009) si può parlare di una perdita per il settore di circa 500 milioni di euro. Sul fronte dei privati le sponsorizzazioni, verso tutti i settori, negli ultimi tre anni sono andate progressivamente diminuendo. Dal 2008 si registra un calo del 25,8%. Per il 2012 si prevede un’ulteriore contrazione del 5%. Ma ben più penalizzate sono le sponsorizzazioni destinate alla cultura che nel 2011 sono state pari a 166 milioni di euro, l’8,3% in meno rispetto al 2010, mentre dal 2008 al 2011 hanno subito un crollo del 38,3%. Una drastica discesa dovuta non solo per la minore disponibilità economica delle imprese, ma anche allo scenario di incertezza e al calo dell’intervento pubblico che scoraggia l’impegno dei privati. Restano, invece, praticamente invariate le erogazioni alla cultura da parte delle fondazioni bancarie. Un valore da difendere. Il nostro Paese, stando alla classifica del Country Brand Index, è al primo posto per l’attrattiva legata alla cultura. Stando ai più recenti dati UNCTAD (United Nation Conference on Trade and Development), nel 2010 il valore dell’export italiano di beni creativi è stato di oltre 23 miliardi di dollari, in crescita dell’11,3% rispetto al 2009. In questo settore abbiamo ancora quote di mercato significative: 17% dell’export europeo e il 6% di quello mondiale. L’Italia mantiene una posizione di leadership: siamo il quarto Paese al mondo per esportazioni di beni creativi, mentre in particolare per il design siamo primo Paese esportatore tra le economie del G8. “La cultura è, insomma, una grande industria capace di produrre beni e servizi made in Italy che originano anzitutto da un’esperienza che si sviluppa in un contesto unico e originale – dice Grossi – Il settore delle industrie culturali e creative, oggi stimato valere il 4,5% del Pil europeo e il 3,8% degli occupati totali, sarà nei prossimi anni in grande espansione. Ma mentre gli altri Paesi, nostri concorrenti, hanno già fatto delle scelte, noi non abbiamo ancora cominciato a discutere”. Emergenza educazione. C’è, però, un’emergenza a cui, stando al Rapporto, bisogna fare fronte al più presto. Il nostro sistema formativo, infatti, sembra perdere capacità di attrarre giovani. Dall’anno accademico 2003/2004 a quello 2009/2010 gli iscritti all’Accademia Nazionale di Arte e all’Accademia Nazionale di Danza sono diminuiti rispettivamente del 7,5% e del 23%. Nell’ultimo anno sono crollate le immatricolazioni negli atenei italiani, i nuovi iscritti sono il 60% dei diplomati. Erano il 70% dieci anni fa. Nella classifica internazionale delle migliori università al mondo, per l’anno accademico 2011/2012, nessuno dei nostri istituti è tra i primi 100: l’Università di Bologna compare, prima tra le italiane, in 183ma posizione; solo 210ma la “Sapienza” di Roma. Siamo tra gli ultimi in Europa per spesa nell’istruzione pubblica: investiamo nel settore il 4,8% del Pil, contro l’8% della Danimarca, il 6,9 dell’Inghilterra, o il 6,2% della Francia. “Il tema della formazione è cruciale. L’istruzione è una chiave dello sviluppo, anche di quello economico – conclude Grossi – Serve una rivoluzione culturale a partire dalla diffusione della conoscenza e dei valori della nostra tradizione per superare il naufragio delle idee e delle risorse creative. Ma soprattutto per risalire la china e affermare un modello di sviluppo che faccia stare meglio gli italiani, premi la qualità e il lavoro, ridia l’orgoglio alla nazione rafforzando il senso d’appartenenza dei cittadini”.
Fonte: La Repubblica