Mettetevi molto comodi.
Stanotte non ho trovato sonno.
Assillato dall’urgenza di scrivere i pensieri qui di seguito riportati.
Corredati dalle note a piè di pagina.
Mettetevi comodi: non è lettura rapidissima.
Ma spero almeno sia di un qualche orientamento.
Ché di questo, nel mondo liquido, v’è urgente bisogno.
Buona lettura.
***
Al termine degli anni ’90, il grande storico inglese Eric Hobswam (1), consegnò alle stampe un libro formidabile, che ha rappresentato una pietra miliare della storiografia mondiale. Uno sguardo a volo d’uccello sul Novecento, il secolo più violento e più intenso della storia umana che, secondo il suo autore, si apriva con la prima guerra mondiale e chiudeva con la caduta del muro di Berlino. Vent’anni dopo sappiamo che quella lettura peccava di semplicismo e, forse, anche di ottimismo. Il Novecento, infatti, è stato – secondo la partizione che ci propone oggi Carlo Galli (2) – il secolo delle “quattro rivoluzioni”.
Quella del socialismo e del comunismo che hanno consentito a milioni di masse diseredate e di lavoratori di accedere a livelli accettabili di salario e dignità.
Quella del fascismo, nato in Italia – e poi importato principalmente in Germania e Spagna con declinazioni differenti, ma non meno virulente – come reazione al protagonismo delle classi lavoratrici e come unione di proprietari terrieri del sud e industriali del nord. Lo scontro tra queste due forze contrapposte e antitetiche ha trovato soluzione nelle due guerre mondiali che hanno visto, ancora una volta, l’Europa al centro dell’immaginario mondiale.
Nel secondo dopoguerra si è prodotta, infatti, la terza rivoluzione del Novecento: quella del compromesso tra Capitale e Lavoro, nella sua declinazione economica che conosciamo con il nome di “Welfare State”. Lunghi anni di prosperità favoriti dal facile accesso alle commodities (anche grazie alla coda colonialista), dalla pace dell’ONU, pur dentro la guerra fredda e il protagonismo della diplomazia di Yalta, dal modello di produzione fordista che include nel processo produttivo l’operaio e informa di sé i modelli sociali e urbanistici; da una forte pressione dei ceti produttivi perché i conflitti politici vengano sindacalizzati e contrattualizzati. Un lento processo d’inclusione nella democrazia di sempre più ampie fasce di popolazione, organizzate in partiti di massa capaci di interpretare la politica come conflitto e mediazione e di ottenere significativi riconoscimenti in termini di diritti salariali, di sicurezza sociale, di integrazione e coesione. La cultura, in questa lunga stagione, si fa popolare: per dirla con Walter Benjamin, grazie alla sua riproducibilità, giunge a ogni ceto sociale; viene diffusa, distribuita, mediatizzata, industrializzata. E saranno poi gli intellettuali francofortesi a spiegarci come la cultura di massa sarà funzionale alla costruzione semantica dell’era della prosperità diffusa nell’occidente capitalistico.
Lo Stato sociale – sperimentato per paradosso dai democratici americani sulla base delle teorie sulla moneta di un economista acuto come John Maynard Keynes, come metodo per fuoriuscire dalla crisi di sovra produzione del 1929 e declinato in politica dal “new deal” di Franklin Delano Roosvelt, tramite l’immissione nell’economia di mercato di forti meccanismi correttivi – ha conosciuto in Europa una declinazione che ha portato alla definitiva consacrazione dell’importanza sociale dei lavoratori sulla scena principale della democrazia. Un’epoca dunque di avanzamento dei diritti sociali e civili, d’impetuoso protagonismo delle masse e di sviluppo dei ceti medi in tutte le democrazie occidentali.
E in realtà possiamo dire che se il Novecento è il secolo del trionfo immaginifico dell’”american way of life”, almeno per tre quarti della sua storia, è stato senza dubbio il secolo in cui il vecchio Continente ha rappresentato la piattaforma di sperimentazione della democrazia più avanzata e in cui le masse popolari sono state incluse e rafforzate. E grazie al quale altre sfere geografiche hanno tratto coraggio, sebbene non siano state assenti contraddizioni laceranti: in Italia con la “strategia della tensione” prima e il terrorismo rosso e nero poi, in Germania con la Raf, in Grecia con i colonnelli o in Spagna col franchismo.
Ma le forze economiche e produttive più conservatrici, alla soglia degli anni ’70, dentro la grave crisi energetica che innalzò i prezzi delle materie prime rendendo più costosi tutti i fattori della produzione, a partire dal costo del lavoro, progettarono la propria rivincita. La quarta rivoluzione del Novecento, nella quale ci troviamo immersi da oltre trent’anni, fu progettata dalla Trilateral Commission (3) e favorita da una formidabile controffensiva che in ogni Paese vide agire potenti sistemi di propaganda. Il neoliberismo ha così trionfato, costringendo le forze sociali che avevano beneficiato della divisione internazionale del lavoro – ottenendo il riconoscimento del proprio ruolo storico e partecipando alle decisioni politiche nonché spostando significative quote di reddito dal Capitale al Lavoro – a restituire quanto conquistato in precedenza.
I tardi anni settanta americani e gli ottanta in Europa, sono anni monopolizzati – anche a livello immaginifico – da una possente propaganda che ha smontato interi pezzi di stato sociale, dirottando risorse verso il settore privato. Dalla sanità (inizia allora, per chi voglia guardare la storia con occhi non ideologici, il declino della sanità, della scuola e dei servizi pubblici. In Puglia, a esempio, il “modello Cavallari” è proprio questo: costruire ospedali privati in regime di convenzione con quelli pubblici le cui prestazioni vengano però comunque pagate dalla fiscalità generale) alla cultura, ogni settore economico viene assoggettato al nuovo verbo: “i privati sanno fare meglio tutto”. Dunque lasciamoli arricchire, perché quella ricchezza potrà essere poi redistribuita.
Una potentissima ideologia, favorita da anni edonistici, lievi, in cui i conflitti dei due decenni precedenti vengono normalizzati, le Università e le fabbriche ridotte a più miti consigli; anche grazie a poderose ristrutturazioni, a dimagrimenti forzati, a delocalizzazioni e, non ultimo, a nuove forme di organizzazione del lavoro che superano il vecchio fordismo pianificatore con i paradigmi nippoamericani del “just in time”, del consumerismo, del marketing come flusso di comunicazione tra impresa e clienti/utenti (4). E grazie, ovviamente, al più straordinario avanzamento tecnologico della storia umana, dettato dall’uso del silicio e dall’invenzione dei semi conduttori, che spinsero velocemente le capacità di calcolo sin, letteralmente, sulla Luna.
E favorita, in definitiva, della sconfitta politica dei partiti rivoluzionari di sinistra che non avevano aggiornato le proprie teorie seguendo la Bad Godesberg che la Spd tedesca aveva affrontato nel lontano 1959, e pur sempre rappresentativi di operai e studenti, cui già troppe concessioni erano state garantite nel lungo e violento decennio precedente (5).
Un’ideologia tanto potente, dicevo, che la signora Margaret Thatcher, (6) alla domanda di un giornalista che le chiedeva nel 1991 quale fosse il suo lascito più importante rispondeva, semplicemente, “il new labour”, cioè i suoi principali avversari che la sua linea politica aveva piegato, modificato, sconfitto e umiliato. Al punto da consentirle di riconoscere nelle parole della sua opposizione argomenti e temi da lei stessa introdotti nel pubblico dibattito mondiale.
Per capirci ancor meglio, è bene ricordare che la declinazione politica del neoliberismo si ebbe con la Trilateral, mentre quella economica pura, con gli studi di due docenti di Chicago, Milton Friedman e George Stigler, che fondarono una scuola di pensiero ancora oggi, assurdamente, richiamata da molti politici ed economisti (7). I principali allievi cileni di questa scuola furono assunti, all’epoca della sua feroce dittatura, da Augusto Pinochet (8) dando vita ad alcune riforme paradigmatiche: contrazione della spesa pubblica e dei salari, blocco dei contratti e delle assunzioni pubbliche, forti privatizzazioni e liberalizzazioni, anche dei servizi pubblici. Politica fiscale conservatrice, che evita cioè la spesa in disavanzo, puntando al pareggio di bilancio. E ancora un’importante riforma del sistema pensionistico, basata sulla liberalizzazione e privatizzazione del monopolio pubblico della previdenza pensionistica. Modello, quest’ultimo, ripreso ancor oggi in molti stati europei.
Come si può vedere temi ancor oggi centrali nel dibattito europeo e, più direttamente, italiano. E anzi fatto proprio dalla carta fondamentale sulla cui base è stata costruita concettualmente e operativamente la nostra Unione Europea: basti leggere i criteri di Maastricht per capire quale pensiero economico e sociale c’è al fondo della nostra convivenza. E osservare che oggi abbiamo una moneta comune, ma a decidere davvero le sorti di noi tutti sono esclusivamente i Capi di Stato nel Consiglio d’Europa e non i rappresentanti del popolo, seduti in Parlamento. Sicché, per esempio, il bel programma a gestione diretta “Creative Europe” viene varato dal Parlamento con una dotazione di 1,8 miliardi e poi tagliato dalla Commissione (altra superfetazione tecnocratica e non eletta da nessun cittadino dell’Unione) a 1,3 per sette anni.
Ora però questo modello economico e di produzione sociale è in crisi. Molti sono i fattori che lo stanno mettendo in mora: l’11 settembre 2001 cha ha inferto un colpo grave all’economia statunitense e a quella mondiale; la globalizzazione dei mercati succeduta al crollo del blocco sovietico, con le forti conseguenze in termini di sperequazione e di dumping salariale; la nascita della moneta unica europea in assenza di una politica davvero comune; il nuovo protagonismo dei mercati e delle società asiatiche, africane, russe e sud americane (i BRICS) che spostano l’asse economico del mondo verso sud e verso est e, ultime ma non ultime, le ripetute crisi economico finanziarie dettate dalla incapacità delle banche di reggere la dose massiccia di prodotti finanziari virtuali (di cui i mutui “subprime” sono stati i più potenti epifenomeni) che hanno attraversato il pianeta a partire dalla Thailandia nel 1997 per giungere al Giappone e, soprattutto agli USA e l’Europa (9). Ma non possiamo essere facilmente ottimisti: intanto perché non sembra scorgersi all’orizzonte un “intellettuale collettivo” in grado di teorizzare un sistema di produzione alternativo. E poi perché le ricette che in Europa (ma negli USA Obama non sta facendo assai meglio) ci stanno somministrando sono perfettamente cicliche rispetto alla fase economica e rispondono alla stessa logica per cui la crisi è nata. Sono le stesse forze dominanti che hanno voluto costruire il mondo come lo viviamo oggi a gestire la soluzione. Neoliberisti che ci curano dai guasti del neoliberismo con ricette neoliberiste. Al malato terminale si somministra veleno, sperando possa magicamente guarirne.
Al termine di questo ciclo così lungo e complesso, allora, cosa rimane?
Forse val la pena solo ricordare lo studio dell’OCSE (10) secondo il quale nei paesi analizzati, il reddito medio del 10% più ricco della popolazione è circa nove volte quello del 10% più povero, più alto delle sette volte di 25 anni fa. Ma non è l’unico studio: a partire dall’indice di Gini, sono oramai decine le analisi che dimostrano come la classe media in tutti i Paesi occidentali sia stata risucchiata nel vortice della povertà e l’assunto di Friedman (fatto proprio da Reagan e Thatcher secondo il quale più cittadini ricchi in una società consentono maggiore benessere per tutti) sia stato drammaticamente smentito dai fatti (11).
Rimanendo in Italia ancora ieri l’Istat (12) ha confermato come la forbice stia ulteriormente allargandosi e come siano quasi 15 milioni a fine 2012 gli individui in condizione di “deprivazione o disagio economico”, circa il 25% della popolazione nazionale, mentre è il 40% al Sud. Nel Rapporto si sottolinea che in grave disagio sono invece 8,6 milioni di persone, cioè il 14,3%, con un’ incidenza più che raddoppiata in 2 anni: era al 6,9% nel 2010.
Ma attenzione: la lettura secondo la quale questa crisi sia frutto della semplice riallocazione su scala geopolitica differente della ricchezza mondiale è davvero semplicistica. Certo, parte della ricchezza sta dirigendosi verso “la fabbrica del mondo” in Cindia (13). Quel che davvero conta, però, in questa crisi di senso dell’occidente, è innanzitutto la colossale spinta distruttiva che l’ideologia liberista ha prodotto.
E d’altra parte il cinema ce lo aveva già spiegato anni fa, con una battuta folgorante e definitiva, messa in bocca al Gordon Gekko di Michael Douglas che, nel cuore dei rutilanti anni da bere, ci raccontava che “l’avidità è giusta”. (14) L’avidità ha pervaso i meccanismi finanziari che, nel loro spirito distruttivo, hanno invaso ogni campo del sapere, della produzione, della riproduzione. Mutando ogni coscienza, ogni consolidata esperienza e finanche i ruoli sociali e familiari. (15)
Così la politica, come forma più alta di conflitto e composizione d’interessi contrapposti e difesa dalla guerra, ha smarrito il suo ruolo riducendosi a mero orpello dell’economia (16).
I partiti sono stati soppiantati dai movimenti e dal “noi” siamo passati all’”io”, dalla solidità sociale alla fluidità, dal conflitto sociale e solidale siamo passati allo sfrenato individualismo, dall’eguaglianza all’homo homini lupus che costringe le menti migliori della mia generazione a lavorare in un call center per 600 euro al mese. E a essere felici di possedere un iphone pagato a rate tramite una finanziaria (17).
Cosa resterà degli anni Ottanta, pensavamo in tanti insieme a Raf?
E invece sono passati anche i novanta, i duemila e non stiamo tanto bene nemmeno negli anni dieci del nuovo secolo/millennio. Mentre l’ideologia neoliberista sembra continuare a godere di splendida salute, macinando intellettuali, partiti, pubblicistica, idee e dunque egemonia. (18)
Per tutto questo insieme di ragioni ho provato una forte indignazione quando ho scorto un pezzo apparso sul primo numero di “Internazionale” nel 1993 in cui si parlava del GATT (19) e del tentativo di inserire la cultura e i prodotti audiovisivi nei negoziati per il libero scambio tra Paesi aderenti all’accordo. Allora gli europei, in testa i francesi, riuscirono a difendere la “eccezione culturale”.
Vent’anni dopo, dunque, le forze liberiste ci riprovano e nel “Transatlantic Trade And Investement Partnership Agreement” tra UE e USA attualmente in discussione tra le due sponde dell’oceano, viene nuovamente inclusa la produzione culturale.
Un’assurdità, giacché in questi anni i prodotti culturali e i media americani hanno potuto tranquillamente essere venduti in Europa, mentre al contrario, le soglie di accesso al mercato nord Americano dei prodotti e delle imprese europee sono altissime e pressoché inespugnabili.
La liberalizzazione commerciale vedrebbe dunque sfavorite le imprese e i prodotti europei, costringendo a modificare le legislazioni nazionali europee che oggi garantiscono la tutela dell’identità culturale e i livelli occupazionali del settore. Cadrebbero gli accordi di coproduzione, indebolendo così anche la già scarsa capacità dei produttori italiani di trovare risorse in altri Paesi comunitari, rendendo più internazionali le proprie storie. E non esisterebbe più la nazionalità europea per i prodotti culturali, che rappresenta il prerequisito per accedere ai fondi pubblici anche regionali (necessari in un mercato assai piccolo come quello dei singoli stati nazionali di cui si compone la UE). E, per paradosso, invece potrebbe essere finanziato con fondi pubblici un blockbuster americano.
Una scelta eminentemente politica dunque attende la Commissione europea, nella consapevolezza che liberalizzare l’intero settore dell’audiovisivo e della cultura potrebbe condurre alla definitiva abolizione di strumenti finanziari di sostegno pubblico, mettendo a repentaglio tutta l’industria europea del settore, che non potrebbe superare la debolezza di un mercato interno piccolo e frammentato.
A guadagnarci sarebbero solo le società americane (over the top in primis, ma anche le nuove piattaforme distributive online come Hulu o Netflix) che rafforzerebbero il proprio già incontrastato dominio e senza che le stesse paghino un solo euro di tasse sul suolo europeo.
Non la faccio lunga e rimando al testo predisposto dalla DGCinema del Mibac e approvato dalle film commission italiane come da pressoché tutti gli operatori dell’audiovisivo italiani,[ qui allegato ], che spiega bene quali siano i rischi che un accordo simile venga approvato.
Epperò noto come l’assedio ideologico sia costante. Sempre più ampia è infatti la pubblicistica che mira a presentare il sostegno pubblico alla cultura come un esternalità negativa (20) da superare al più presto. E come l’ideologia neoliberista, nel gorgo della crisi economica che essa stessa ha prodotto, stia sfornando aporie potenti nella sua stessa costruzione semantica.
Come altro possiamo giudicare la distanza che intercorre tra il “Libro verde sulla cultura e la creatività in Europa” e la “Cinema communication” predisposta dalla medesima Commissione europea e qui allegata per maggiore approfondimento?
L’uno (21) parla di potenziale culturale europeo da sviluppare, anche attraverso adeguate misure di sostegno economico pubblico. E lo fa sulla base dell’articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione. L’altro pone dei limiti durissimi a livello di territorializzazione e impone agli Stati e le regioni che sostengono l’audiovisivo, regole assai contradditorie che istigano in buona sostanza alla loro elusione (22). Oppure alla fine del sostegno pubblico locale all’audiovisivo.
Una prospettiva che potrà anche piacere ad alcuni mâitre a pénser destrorsi e a parlamentari disinformati. Ma che significherebbe, concretamente, non avere più un cinema e una cultura nazionali. Cioè non esistere più nel mondo!
Tanto più in assenza di una reale liberalizzazione del mercato interno, che consenta di attrarre risorse rivenienti da altri mondi, di rendere possibili investimenti finanziari nel cinema, di rivedere le finestre, di separare nettamente le attività di broadcasting da quelle editoriali, creando un vero mercato interno ed europeo dei contenuti audiovisivi. E combattendo a muso duro la pirateria, che ci sta letteralmente consumando.
Per concludere questo viaggio nelle nostre attuali contraddizioni mi diverte immaginare le obiezioni dei neoliberisti che ci incalzano, decantando le magnifiche sorti e progressive del mercato autoregolantesi.
Desidero dunque – pochi o molti che siano – tranquillizzarli: non sogno il ritorno alla economia di Stato e sono convinto che il nostro sistema economico, in particolare quello audiovisivo, sia affaticato da gravi vincoli che vanno urgentemente sciolti per liberare energie, consentire l’afflusso di nuove energie creative, produrre di più e meglio, competere a livello internazionale fieri della nostra diversità culturale.
Ma per raccontare tutto questo, rinvio a un prossimo post.
(Silvio Maselli)
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(1) Eric Hobswam, “Il secolo breve”, Rizzoli, 1995
(2) Carlo Galli, “Sinistra”, Rizzoli, 2013
(3) Per una breve storia della commissione trilaterale, promossa da David Rockfeller: http://it.wikipedia.org/wiki/Commissione_Trilaterale
(4) Per uno sguardo interessante sui modelli organizzativi d’impresa si veda Denis Segrestin, “Sociologia dell’impresa”, Dedalo, 1994
(5) Emblematica è la marcia dei 40 mila “colletti bianchi” a Torino durante lo sciopero generale operaio, quando, nel 1980, forzando i picchetti, i funzionari amministrativi della grande FIAT entrarono in fabbrica per lavorare, sancendo la definitiva spaccatura del fronte dei lavoratori di concetto dagli operai. Un racconto importante delle conseguenze simboliche e materiali di quell’evento storico lo ha fatto Gad Lerner, “Operai”, Feltrinelli, 1988.
(6) Primo Ministro conservatore britannico dal 1979 al 1990.
(7) La storia però, si sa, torna sempre in forma di farsa: http://it.wikipedia.org/wiki/Oscar_Giannino
(8) Feroce generale e dittatore cileno: con un colpo di stato si autoproclamò presidente del suo paese, dopo aver infedelmente attentato alla vita di Salvador Allende, presidente socialista regolarmente eletto con libere, democratiche e corrette elezioni nazionali. Pinochet ha governato il Cile dal 1973 al 1990. Interessante notare che Enrico Berlinguer avviò le sue riflessioni sul compromesso storico tra PCI e DC poi guidato dal moderato conservatore Giulio Andreotti, scomparso pochi giorni fa, proprio a partire dai fatti cileni e con tre articoli apparsi sulla rivista Rinascita intitolati “Riflessioni sull’Italia”.
(9) Per comprendere accuratamente la portata della crisi suggerisco la lettura dei due testi di Aldo Giannuli: “2012: la grande crisi”, Ponte alle grazie, 2010 e “Uscire dalla crisi è possibile”, Ponte alle grazie, 2012.
(10) “Divided we stand: why inequality keeps rising”, OECD 2001 – 12 – 05
(11) Si leggano il premio nobel per l’economia Joseph Stiglitz, “Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro”, Einaudi, 2013; Luciano Gallino “Globalizzazione e disuguaglianze”, Laterza, 2000; Luciano Gallino “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi”, Einaudi, 2011; Giuseppe De Rita e Antonio Galdo, “L’eclissi della borghesia”, Laterza, 2011.
(12) Istituto nazionale di statistica, “Rapporto annuale 2013 – La situazione del Paese”, 22 maggio 2013.
(13) Federico Rampini, “L’Impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi e mezzo di persone”, Mondadori, 2007
(14) Gordon Gekko è il broker finanziario protagonista del film “Wall street” di Oliver Stone, 1987. La citazione completa è: “L’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha impostato lo slancio in avanti di tutta l’umanità. E l’avidità, ascoltatemi bene, non salverà solamente la Teldar Carta, ma anche l’altra disfunzionante società che ha nome America”.
(15) Utilissime sono state per me le letture di Massimo Recalcati, “Cosa resta del padre – La paternità nell’epoca moderna”, Raffaello Cortina editore, 2011 e di Vito Mancuso, “La vita autentica”, Raffaello Cortina editore, 2009.
(16) Colin Crunch, “Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo”.
(17) Tema questo che Pier Paolo Pasolini, uno dei più grandi poeti e intellettuali del novecento aveva capito bene, quando nei suoi “Scritti corsari”, Garzanti, 1975 parlava di capacità del sistema di produzione e riproduzione capitalistico di indurre al consumo e al desiderio. E’ stato poi Lacan a insegnarci come tra desiderio e responsabilità tocchi sempre fare scelte quotidiane e durissime.
(18) Sul punto dell’egemonia vien facile, pressoché obbligato, segnalare la lettura difficile e, insieme, decisiva di Antonio Gramsci, “I quaderni del carcere”, Editori Riuniti, 1975 (ed. di Valentino Gerratana). L’intellettuale più citato e meno letto al mondo. Eppure, forse, in assoluto il più grande pensatore politico del secolo scorso.
In particolare per capire davvero il senso dell’operazione culturale che il neoliberismo ha scientificamente prodotto nelle società mondiali occorre rileggere il primo quaderno sul Risorgimento (par. 44).
Per esempio questo passaggio che spiega come ogni rivoluzione, per esser tale, abbia dapprima necessità di costruire una sua classe sociale omogenea:
“Direzione politica di classe prima e dopo l’andata al governo. Tutto il problema delle varie correnti politiche del Risorgimento, dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con le forze omogenee o subordinate delle varie sezioni (o settori) storiche del territorio nazionale si riduce a questo fondamentale: che i moderati rappresentavano una classe relativamente omogenea, per cui la direzione subì oscillazioni relativamente limitate, mentre il Partito d’Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni che subivano i suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati […] Il criterio storico‑politico su cui bisogna fondare le proprie ricerche è questo: che una classe è dominante in due modi, è cioè «dirigente» e «dominante». È dirigente delle classi alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò una classe già prima di andare al potere può essere «dirigente» (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche «dirigente». […] Ci può e ci deve essere una «egemonia politica» anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica. Dalla politica dei moderati appare chiara questa verità ed è la soluzione di questo problema che ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato di rivoluzione senza rivoluzione. In quali forme i moderati riuscirono a stabilire l’apparato della loro direzione politica? In forme che si possono chiamare «liberali» cioè attraverso l’iniziativa individuale, «privata» (non per un programma «ufficiale» di partito, secondo un piano elaborato e costituito precedentemente all’azione pratica e organizzativa). Ciò era «normale», data la struttura e la funzione delle classi rappresentate dai moderati, delle quali i moderati erano il ceto dirigente, gli «intellettuali» in senso organico. Per il Partito d’Azione il problema si poneva in altro modo e diversi sistemi avrebbero dovuto essere applicati. I moderati erano «intellettuali», «condensati» già naturalmente dall’organicità dei loro rapporti con le classi di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava l’identità di rappresentato e rappresentante, di espresso e di espressivo, cioè gli intellettuali moderati erano una avanguardia reale, organica delle classi alte perchè essi stessi appartenevano economicamente alle classi alte. […] Si rivela qui la verità di un criterio di ricerca storico‑politico: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni classe ha i suoi intellettuali; però gli intellettuali della classe storicamente progressiva esercitano un tale potere di attrazione, che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali delle altre classi e col creare l’ambiente di una solidarietà di tutti gli intellettuali con legami di carattere psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta (tecnico‑giuridici, corporativi). […] Il Partito d’Azione segue la tradizione “retorica” della letteratura italiana. Confonde l’unità culturale con l’unità politica e territoriale. Confronto tra giacobini e Partito d’Azione: i giacobini lottarono strenuamente per assicurare il legame tra città e campagna.”
(19) Il GATT è il “General agreement on tariffs and trade”, siglato la prima volta a Ginevra nel 1947 da 23 paesi per creare un sistema di scambi multilaterali. Suo “figlio” è il WTO che spinse la mia generazione a scendere in numerose piazze del mondo a cavallo tra due secoli per raccontare la storia diversa di un popolo più numeroso di 8 “grandi” persone chiuse dietro cancellate invalicabili. In una Genova surreale del luglio 2001 quelle storie belle e colorate, sono tragicamente finite in una fuga tra i fumogeni e le sirene spiegate.
Nel negoziato di cui tratto nel testo si affrontarono i temi della creazione del WTO, della riduzione dei sussidi alla esportazioni e di altre distorsioni di ostacolo al libero mercato, di accordi per il rafforzamento della proprietà intellettuale e – tra le altre cose – del principio di “eccezione culturale” che passò, mettendo al riparo la identità dei singoli stati rispetto alla forza dirompente degli Stati Uniti.
(20) Tra i tanti segnalo il testo che ha fatto maggiore scalpore, pur trattandosi di un saggio davvero modesto e quasi irritante per la sua vacuità di argomenti e la scarsità di numeri portati a sostegno di un tema tutto ideologico: AA.VV., “Kulturinfarkt – Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura”, Marsilio, 2013.
(21) http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0183:FIN:EN:PDF
(22) Il terzo testo predisposto dalla Commissione è consultabile da qui: http://ec.europa.eu/competition/consultations/2013_state_aid_films/draft_communication_en.pdf
(23) Significativa è la pesante contraddizione presente all’articolo 52 che sostanzialmente impedisce il varo di fondi statali o locali di tipo automatico (gli unici che, secondo il mio avviso, funzionino davvero in modo trasparente ed efficiente) e costringe alla selettività, dunque alla pesante ingerenza della politica nelle scelte di natura artistica. Dalla padella della liberalizzazione transfrontaliera, alla brace del politico che si fa i film su misura della propria piccola identità localistica.