Io non capisco di cinema, come la signora Mariarosa Mancuso.
E’ davvero avvilente fare la critica cinematografica negli anni dell’uno. Si possono anche vincere i premi assegnati dai colleghi (bella forza direbbe il garante della concorrenza), ma sempre servi di un’ideologia s’appare. Come lo siamo tutti, d’altra parte. E per fortuna. Visto che a me, invece, da quando sono piccolo mi raccontano della morte delle ideologie. Ancor più mortificanti, soprattutto per il lettore, sono gli articoli che, invece di aiutarti a capire, t’introducono all’universo personale del critico della cui sapienza francamente poco m’importa. Un po’ come accadeva a quell’elegante signora fiorentina vecchia, sola e ammalata, scopertasi di destra estrema negli ultimi anni della sua avventurosa esistenza, perché mal sopportava i poveri migranti che insudiciavano le vie della sua bomboniera cittadina. Così succede all’autorevole signora Mariarosa Mancuso, che discetta addirittura per sei colonne (sei!) sul foglio ferrariano di un film sul quale ho espresso un parere, invero scarsamente motivato, menandola alla lunga e inanellando numerose citazioni filmiche e letterarie che uno pensa l’argomento sia davvero serio, ultimativo, decisivo per le sorti intellettuali del Paese. E invece no, l’articolessa ci parla dell’ultimo film made in Tao Due – Medusa dal titolo profetico “I soliti idioti”, il cui incasso del primo weekend mi aveva fatto arrabbiare. E sapete perché? Perché a differenza di un’autorevole critica cinematografica, io vivo la mia vita professionale in trincea. A contatto quotidiano con le decine di produttori cosiddetti indipendenti di cinema e televisione che mi raccontano sempre e soltanto una storia: quella della difficoltà di arrivare al mercato, in un settore malato di scarsi finanziamenti e della quasi impossibilità di trattare a pari livello con i broadcaster per diritti d’antenna degni di un civile scambio di valore (moneta vs. prodotto che crea valore per il broadcaster che vende pubblicità). Si certo, il mercato nel nostro settore è stato introdotto dagli amici governativi della Mancuso, anni or sono, con le magnifiche sorti e progressive del tax credit e con la diffusione estrema dei multiplex che hanno fagocitato le monosale di città. Ma, insieme al tax credit, il signor Tremonti e il signor Bondi hanno massacrato il fondo unico dello spettacolo e allora, per vedere il cinema italiano, non ci resta che assistere alla solita commedia. Ai “soliti idioti”. Oppure operazioni faraoniche e meravigliosamente “altre”, come l’ultimo Sorrentino americano o il prossimo Vicari, il cui produttore i soldi ha dovuto trovarli all’estero. Perché tanto qui in patria né commissioni né televisioni hanno il coraggio di rischiare di prendere le sculacciate dal padrone politico del momento. Fatte alcune lodevoli eccezioni. Dunque questo è il nodo: io non discuto solo del valore intrinseco di un film. Da quando esiste questa macchina meravigliosa del cinema, esistono anche i film di cassetta, pensati per un pubblico popolare, che cerca al cinema solo svago dalle fatiche quotidiane e dai pensieri ossessivi. Non tutti amano Bergman o Kieslowski. Ma difendo il diritto anche di questi ultimi autori (e dei loro produttori) d’arrivare a un pubblico. Per questo abbiamo inventato il circuito delle sale di qualità “D’Autore”. Per rispetto, innanzitutto nei confronti del pubblico. Io discuto, invece, dei meccanismi distributivi che stanno massacrando il cinema di qualità, fatto da gente di qualità. Cinema che si continua a fare con molto coraggio produttivo e pochissimo spazio nelle sale. E che il prossimo anno non vedremo quasi più in giro. Sappiamo infatti da tempo che per la riuscita commerciale di un film, la sala è lo spazio decisivo. In Italia, invece, la Medusa ha integrato verticalmente la filiera e, tramite la venture con Warner, possiede il circuito The Space che occupa oltre un quinto della quota di mercato complessiva. La Rai, controllata politicamente dalle forze politiche di maggioranza, gestisce sia la produzione che i diritti d’antenna che la distribuzione tramite la sua 01. E se il film non piace a uno di questi due attori del piccolo mercato nazionale, con chi lo fa il produttore? Ma veniamo al cuore della sua infinita prolusione. La sua è una critica alla critica e dice grosso modo le cose che dicono da vent’anni le destre intellettuali italiane: critica, cioè, chi dice che il film “I soliti idioti” è inguardabile perché chi lo dice è snob e legge la Repubblica. Questa, in estrema sintesi, è l’altissimo pensiero della Mancuso. Però poi la suddetta fa la medesima cosa sostenendo che la comicità è lo specchio dei tempi e, in quanto tale, va difesa sempre. E, nello specifico, questo film, meglio di altri, rappresenta la nostra società. Appunto, rappresenta. Non critica. E lo fa a partire da un format britannico – “Little Britain” scritto e interpretato da Matt Lucas e David Walliams – che viene imitato quasi pedissequamente. Solo che l’originale della BBC è uno spaccato fortemente critico della società britannica e i suoi autori non hanno mai pensato di trasferire in un lungometraggio l’insieme dei loro sketch, rispettosi di un linguaggio differente da quello televisivo. Sebbene sia davvero facile arrivare al grande schermo, forti della presenza televisiva. Questa è, per me, la principale responsabilità dei produttori e distributori italiani, ammalati di commedia (cfr. http://vintage2.apuliafilmcommission.it/blog/riconciliarsi-con-la-lettura-dei-critici.html). Vale per tutti, certo. Anche per il nostro amato Checco Zalone. Che costruisce due film di narrazione, però, non dei siparietti che, visti su you tube o facendo zapping, poco cambia.
Ma io, evidentemente, non capisco di cinema come la signora Mariarosa Mancuso.