Una questione popolare.
Trovo la cagnara che sui social si sta facendo sulla programmazione in TV (su Canale 5!) de “La grande bellezza” davvero ridicola.
Personalmente, pur essendo schiettamente schierato dall’altra parte politica, non ho mai fischiato – come i tanti deficienti seduti accanto a me – il marchio Medusa quando passava alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia prima di un loro film. Penso che nel mercato radiotelevisivo possa esserci chiunque (a patto, però, di impedirne l’ascesa al governo e la candidatura al Parlamento, così come anche le indebite pressioni sulla politica in ogni senso e per non lasciar dubbi parlo qui del signore che prese la tessera numero uno del Pd) e che più attori ci sono, meglio è per il Paese.
Penso che programmare in TV sia stata una cosa utile, perché ha allargato la platea sfruttando il trend immediato, cosa che non sarebbe stata possibile se il film avesse rispettato le finestre che, per vetusta consuetudine, impediscono a un film di apparire in televisione prima di molti mesi dalla sua uscita cinematografica, come se i pubblici fossero statici e ossificati dentro uno schema temporale e non piratassero liberamente i contenuti audiovisivi, procurandosi – tramite la rete – ogni proprio desiderio.
Tanti ragazzi e ragazze, tante donne e uomini che non avrebbero altrimenti mai visto il grande film di Sorrentino si sono sentiti chiamati a farlo come nessuna uscita sala avrebbe potuto e saputo fare.
Insomma, miei cari snob, leggetevi “Il desiderio di essere come TUTTI” di Francesco Piccolo e smettetela di menare il can per l’aia. Altrimenti sarete sempre sconfitti.
E lo sconfittismo è l’altra faccia della brutta medaglia che si chiama minoritarismo. Che altra cosa è dall’essere minoranza.
E’, invece, l’atteggiamento mentale di chi si ritiene, ingiustamente, migliore del proprio prossimo.
Penso incidentalmente che l’uscita solo televisiva favorisca il solo broadcaster, mentre l’uscita sala aiuta la produzione indipendente a raggiungere un successo anche finanziario, tanto più dopo lo sforzo per la campagna Oscar. E penso servano gli escalator per i produttori. Ma qui servirebbe un lungo altro ragionamento.
Infine, per capirsi ancor meglio sui flussi, è bene leggiate questo ennesimo intelligente ragionamento di Stefano Balassone.
Cit.:
È merito delle donne (e specialmente delle ragazze) se la tredicesima edizione del Grande Fratello, dopo un intero anno di astinenza e senza risentire della crescita della pay-tv e dal pullulare dei “canalini”, ha raccolto all’esordio lo stesso numero di spettatori (attorno ai sei milioni) della edizione passata, compensando dal lato femminile qualche perdita di uomini e ragazzi. Sarà che il programma riesce a evolvere, tanto che stavolta c’è anche una ragazza che, per un incidente d’auto ha perso un braccio, come citazione non involontaria da Braccialetti rossi, la fiction di Raiuno in onda alla domenica, che sta spopolando fra gli stessi giovani che seguono il GF. Mentre nella stessa sera ai nonni, che il GF proprio non lo reggono, ci pensava il commissario Meschino, con Luca Zingaretti, ormai un icona di riferimento per le classi di età più avanzate.
Braccialetti Rossi, il Grande Fratello e Luca Zingaretti (nelle sue varie incarnazioni) rappresentano casi di generalismo “segmentato”: raccolgono cioè platee vaste, ma diversamente caratterizzate sul versante generazionale, sociale e/o territoriale. Mentre, come tutti sanno, un esempio di generalismo “pieno”, forse l’unico, è da sempre il Festival di Sanremo. Ma da ieri sera dobbiamo aggiungere, e verrà studiato a lungo, il caso del “film giusto al momento giusto”, quale sembra essere La grande bellezza. Più di otto milioni di spettatori che si sono sorbiti anche gli interminabili intervalli pubblicitari (alla faccia del “non si spezza una emozione”) arrivando a vedersi ciascuno in media il 60% dell’intera durata. L’aspetto più sorprendente è che il pubblico del Grande Fratello si sia trasferito, pari pari, nell’audience del film di Paolo Sorrentino (a parte il dileguarsi più che scontato dei fanciulli e fanciulle fino ai 14 anni) trovandosi in compagnia delle tipologie di spettatori che di solito se ne stanno arroccate in Raitre e La7 (e infatti ieri sera Ballarò ha dimezzato il risultato e La7 è stata praticamente cancellata).
Basti dire che tra i laureati lo share ha sfiorato il 50%, molto di più che per la finale di Sanremo e quattro volte di più rispetto alla sera precedente per l’esordio del Grande Fratello. Tutto il pubblico delle élites ieri sera non ha avuto dubbi e, caso più unico che raro, è restato a casa apposta per vedere il film dell’Oscar (tant’è che gli spettatori della tv superano di qualche centinaio di migliaia quelli della sera precedente).
In altri termini, come nei tentativi di fusione nucleare controllata, le componenti del pubblico che reciprocamente più si respingono, sono state costrette in un’unica platea dalla forza di pressioni inusitate e smisurate: la curiosità per l’Oscar, ma anche la fierezza – renziana e farinettiana – per il riconoscimento al “made in Italy; il vuoto di senso, ma anche la consapevolezza del medesimo; la voglia di indulgenza nell’altro mondo inseguita fin sulla cima della Scala Santa, ma anche la impossibilità di accontentarsene in questo mondo di perenne crisi e crescente disoccupazione. Etc, etc. Insomma, il cocktail giusto (a quanto pare dall’accoglienza) di curiosità mondana e lettura partecipe, di attualità e di eternità.
E noi ci vediamo anche un incoraggiamento a superare il nostro “generalismo segmentato”, dove sette canali si affannano ogni sera a sminuzzare in target la vasta platea, privandoci delle “case comuni”, che altrove esistono eccome (pensiamo a BBC1 e ITV in Inghilterra, a TF1 e France” in Francia, a Das Erste e ZDF in Germania). Chissà se nella “politica del fare” si troverà lo spazio per indurre le nostre aziende televisive a darsi quel tanto di riorganizzazione che ci metta nella condizioni di far trovare al paese una possibile convivenza mentale. Che a quanto pare è possibile, perfino tra uno spot e l’altro.