Subito dopo la laurea in scienze politiche a Bari, nella profonda entropia tipica del post laurea, ho incrociato nei corridoi della mia facoltà l’annuncio di un master in management culturale cui mi sono candidato svolgendo un colloquio.
L’esito sarebbe giunto dopo alcuni mesi, per cui decisi come tanti, di partire: mi feci prestare dai miei genitori (che fortuna avere genitori così) due milioni di vecchie lire, tondi tondi.
La promessa fu di restituirglieli al rientro e partii per Londra con uno dei primi voli Ryan su Stanstead.
Ad accogliermi trovai una città nel pieno della sua ridefinizione e vi rimasi alcuni mesi. Dopo soli tre giorni trovai lavoro, a seguito di un colloquio, presso la catena Costa coffee shop e presi a fare il barista, dopo che negli ultimi tre anni di università avevo servito ogni notte, sino alle tre di notte, birre e panini nel ‘meno un piano’ della gloriosa “Taverna vecchia del Maltese” di via Netti a Bari. Luogo mitico per il capoluogo pugliese: fucina di storie e talenti, di disperazione e di futuro, di concerti e fumate, di amori e di scoperta.
Londra per me divenne istantaneamente routine: la mattina sveglia presto, pane tostato e marmellata in casa di una famiglia di colombiani trapiantati sui canali del Tamigi in zona Camden; metro sino a Tottenham court road e lavoro sino alle 6 p.m. al bar in una zona di executive e non lontanissimo dal fumo danaroso della city. Mi pagavano 6 pounds l’ora. Il mio odio di classe cresceva quotidianamente e, non fosse stato per la mia nuova amica madrilena conosciuta in casa di amici, sarei impazzito.
La sera, infatti, rientrando in quella che mesi dopo a Roma avrei capito esser la ‘borgata’ della metropoli, attraversavo bui anfratti odorosi di fried onion rings nella bruma del fiume e mi sentivo disperatamente solo.
Avrei potuto, me lo son detto tante volte anni dopo, vivere della grande città la sua anima bohemien: trascorrere il tempo per locali, seguire controculture sex addicted, provare ogni tipo di esperienza culturale. Perché Londra ha in pancia quasi tutto il mondo che lì converge alla ricerca di una speranza. Facce di ogni colore ti aiutano presto a capire che il genere umano cerca il suo prossimo per determinare la propria identità.
Scoprii le international phone card. La mia generazione, infatti, non è cresciuta con il mobile phone sotto al cuscino. E con un vecchio etacs non bastavano i pochi spiccioli che avevo per chiamare casa.
Ma questo ecco, questo bisogno di sentire voci amiche, nella grande fredda piovosa nera città lo sentivo forte, sin dentro la pancia e mi struggevo tra il desiderio del voler essere e il profondo bisogno etico di dimostrare a me stesso – innanzitutto – di potercela fare: di arrivare sino in fondo alla missione di portare a casa un assegno, di due milioni di lire convertite dalla sterlina, guadagnate in un altro Paese.
Io poi ce l’ho fatta a tornare: dal master mi hanno dichiarato ammesso e, riempito il gruzzoletto prer restituirlo ai miei, tornai trionfante e pronto alla nuova sliding door che mi avrebbe condotto a Roma.
Scrivo tutto questo perché oggi, ogni giorno della mia vita che vivo nel quartiere Libertà di Bari, c’è un ‘phone center’ gestito da indiani. E mi scopro fragile a ricordare le mie serate di solitudine londinese, privato della “prima radice” – quella sociale – eppure così più forte di cingalesi, indiani, pakistani, mauriziani, senegalesi che affollano a decine quel minuscolo negozietto alla ricerca disperante di udire voci amiche e familiari e di raccontare loro la storia brutta della migrazione in occidente, delle vessazioni di prostitute africane scaricate ogni ora del mattino da burberi italiani che le han caricate la sera precedente qui, proprio sotto casa mia; di mazzi di rose invendute alla sera tardi; di ombrelli e accendini che nessuno vuole; di anziani morenti dalla bianca pelle che nessun parente vuole più sobbarcarsi di ripulire dei propri escrementi, lasciandolo fare a loro, merce nelle mani di un Paese corrotto innanzitutto moralmente, dentro le sue più intime fibre.
E allora mi commuovo e mi viene di scriverlo in questo blog, contenitore di emozioni mie che mi impegno a diffondere per dire che non siamo solo successo e felicità cinematografica. Siamo sangue e siamo merda di una società disfatta e predona. E vorrei tornare lì, in quelle cabine telefoniche ricolme di mirabolanti annunci sessuali londinesi, e ricordarmi sempre che non è mai stato, chi non può mai essere e che bisogna provare sulla propria pelle ogni emozione per sentirsi parte del tutto e con/dividere prima di giudicare; bisogna piangere per capire quanto una parola possa far male ed emigrare per capire quanto dolore dà il partire, sapendo di non poter tornare lo stesso di prima perché la dignità una volta persa, è per sempre.
Pensavo un tempo, leggendo della storia di questo nostro stramaledetto bellissimo paese, che secoli di divisioni e decenni di emigrazione ci avessero reso immuni dal perenne gramsciano sovversivismo delle classi dirigenti.
Mi sbagliavo. Questo nostro paese conosce il male e pure il peggio.